Archeologia di domaniChe cosa resterà delle nostre megalopoli

Le impronte geologiche della nostra era saranno immense e condizioneranno l’avvenire, spiega lo studioso David Farrier in “Tracce” (Mondadori). E se delle nostre costruzioni rimarrà poco, l’influenza sul clima rischia di durare per sempre (o quasi)

Di Dima Shishkov, da Unsplash

Tutte le città sono rovine allo stato iniziale. La rovina c’è già, sotto la strada lucente. Lo si vede in modo palese nel progetto sui passages di Parigi del filosofo Walter Benjamin, rimasto incompiuto alla morte dell’autore, nel 1940.

Benjamin lavorò per tredici anni alla sua riflessione sulle gallerie ricoperte di ferro e vetro della Parigi ottocentesca (resistono le voci secondo cui il manoscritto finale sparì dalla valigetta di Benjamin quando lui morì, durante la fuga dalla Francia occupata dai nazisti) e, nonostante non sia altro che un insieme di annotazioni e riflessioni abbozzate, è stato letto da molti come l’opera fondamentale sulla città moderna.

Quanto giunto fino a noi è esso stesso una specie di rovina: uno strano collage di ricordi ed erudizione, citazioni e aneddoti. La concezione di Benjamin della città prende forma in una grande profusione di dettagli.

Alla base dell’ispirazione delle riflessioni di Benjamin c’è il flâneur di Baudelaire, l’uomo che passeggia tra la folla, il cui sguardo buca la superficie della città e ne collega i frammenti.

La Parigi di Benjamin è, dichiara egli stesso, la «città sprofondata» delle poesie di Baudelaire, con il suo mare di case simile a «onde gigantesche», «più ancora sottomarina che sotterranea». Ma ciò che catturò la sua immaginazione giaceva sommerso sotto i tetti di vetro delle gallerie. In un passo delle prime pagine, scritto nel 1928 o 1929, Benjamin ricorda l’entusiasmo che provava da bambino per le enciclopedie, in particolare per le illustrazioni a colori dei paesaggi preistorici: le giungle selvagge del Carbonifero, o «Laghi e Ghiacciai della Prima era glaciale».

Un panorama simile si schiude, suggerisce, quando contempliamo i passages parigini, che per Benjamin assomigliavano a siti di vestigia provenienti dal tempo profondo. Il consumatore che frequenta la cavernosa galleria è «l’ultimo dinosauro d’Europa»; e «sulle pareti di queste caverne, la merce prolifera come una flora immemorabile» e permane nei «rapporti più sregolati».

Nell’abbondanza delle gallerie, emerge «un universo di affinità misteriose», scrive Benjamin: «la palma e lo spolverino, l’asciugacapelli e la Venere di Milo, le protesi e il portacarte» legati impercettibilmente dalle vite che attraversano.

La fondamentale intuizione di Benjamin nel libro sulle gallerie è che ogni città è composta da innumerevoli affinità segrete. Materiali provenienti dall’altra parte del globo si riversano in città nel calcestruzzo, nei mattoni e nell’acciaio dei loro edifici, o sotto forma di tazze di caffè e carte di credito, cavi in fibra ottica e vetro per finestre, anelli di diamanti e graffette.

Per quanto possano sembrare separati l’uno dall’altro, questi oggetti hanno una connessione comune. Il loro segreto siamo noi, di cui popolano la vita e con cui condividono l’intimità.

Più di tutte le altre tracce che ci lasceremo dietro – le strade grigie distribuite sulla terra come vene, le profonde cave che abbiamo scavato e i residui chimici che abbiamo lasciato nell’aria, il ghiaccio e l’acqua, o le plastiche durevoli e i radionuclidi ancor più durevoli –, le nostre città costituiranno l’archivio più esaustivo e rivelatore di chi eravamo e come vivevamo.

La nostra «flora immemorabile» permarrà nei resti fossilizzati degli edifici, nelle loro infrastrutture sepolte e negli innumerevoli piccoli oggetti buttati, come una vasta enciclopedia delle vite e dei desideri umani.

Più di metà del mondo vive ormai in città; fino al 1800, era il 3 per cento. Nel 2016, erano 512 le città con una popolazione superiore al milione di abitanti. Le Nazioni Unite prevedono che nel 2030 ce ne saranno 662, aggiungendo ogni anno altri 72 milioni di persone alla popolazione urbana globale.

Centoquarantacinque milioni di persone vivono su coste alte meno di un metro sul livello del mare. La maggior parte si trova in megacittà come Giacarta, Lagos, New York e Mumbai. Tra il 1995 e il 2015, il numero di queste megacittà, con 10 milioni di abitanti o più, è raddoppiato, e stanno tutte crescendo. Entro il 2030, la popolazione di Shanghai sarà passata da 24 a oltre 30 milioni di abitanti; quella di Mumbai avrà raggiunto i 27 milioni. A Dhaka vivranno 9 milioni di persone in più; 11 milioni a Lagos.

Negli ultimi decenni le città si sono espanse nei deserti, come i lucenti palazzi di Dubai, e hanno colonizzato migliaia di ettari di terra strappata al mare; in futuro potrebbero scavare sottoterra, come la città sotterranea a più livelli progettata da Singapore.

Per un tempo limitato, tutte le città lasceranno una traccia. Non un quadro completo: mancando infrastrutture molto durevoli, il milione circa di persone che improvvisano la vita cittadina a Dharavi non contribuiranno all’impronta di Mumbai come chi abita nei grattacieli di Nariman Point. Ma con grandi strutture e fondazioni profonde, perfino le città vuote dureranno per migliaia di anni sotto forma di isole di vetro e calcestruzzo, collegate da una rete di tributari (ferrovie, strade, fogne e tubazioni).

Ma se consideriamo il destino delle città su una scala di svariati milioni di anni, alla fine quelle situate ad altezze più elevate o dove il terreno si innalza saranno ridotte a nulla. Le città che verranno preservate saranno state protette dall’erosione grazie alla benedizione dell’acqua e al balsamo del fango.

Le megacittà a bassa altitudine situate su pianure costiere, estuari marini o golene, vulnerabili all’innalzamento dei mari, hanno le migliori possibilità di fossilizzarsi. Una volta sommersa, la città abbandonata sarà ricoperta da uno spesso strato di fango che la proteggerà dagli appetiti del clima e dell’ossidazione.

Alla fine i suoi edifici collasseranno, ma ciò che è sepolto, le tracce sotterranee – le fondazioni a zattera e i piloni di cemento che tengono i grattacieli di New Orleans al loro posto o perfino i pali di legno sovrastati da pietra di Venezia; le metropolitane, le tubazioni e i cavi –, finirà per formare quello che il geologo Jan Zalasiewicz, presidente dell’Anthropocene Working Group, chiama «strato urbano», un ricco tappeto di tracce umane e affinità segrete compresse nella roccia.

Fra cento milioni di anni, ciò che rimarrà di New York o Mumbai potrebbe essere un deposito non più spesso dell’estremità meno profonda di una piscina. Ironia della sorte, l’acqua che costringe all’abbandono delle città costiere ne assicurerà anche il futuro.

Nel frattempo, la perdita delle città che conosciamo ne farà nascere altre, a mano a mano che la gente partirà in cerca di terra asciutta: una nuova Miami, una nuova Dar es Salaam, una nuova New York.

Mentre le onde si infrangeranno sulle vecchie città, quelle nuove si riverseranno su terreni più elevati, spingendo le loro fondamenta negli strati geologici e costruendo i propri mondi di affinità segrete.

 

da “Tracce. Alla ricerca dei fossili di domani”, di David Farrier, Mondadori, 2021, pagine 276, euro 21

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