Nella settantasettesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ha avuto una piccola parte anche il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, che ha partecipato a due panel con i tre Paesi più importanti per il settore cinematografico mondiale: Stati Uniti, India e Cina. Il grillino Di Stefano, che di recente si era fatto notare per un tweet scritto dopo l’esplosione a Beirut, capitale del Libano, nel quale confuse il popolo libanese con quello libico, anche questa volta ha lasciato il segno.
Dopo una filippica introduttiva, Di Stefano ha presentato con poche e, a sue avviso, evocative parole il retaggio culturale senza eguali del nostro Paese: «È la nostra caratteristica… quella capacità di avere qualcosa da raccontare ogni volta che c’è da parlare di cultura e di bellezza in tutte le sue forme». Dei guitti, insomma. Passando poi a un elogio delle doti da poliglotta che si acquisisce in determinati settori: «Aggiungo una cosa, che forse mi affascina di più: la diplomazia culturale è uno dei pochi settori dove sostanzialmente parliamo tutti un po’ la stessa lingua». Quale sia questa lingua rimane un mistero.
Il Cinquestelle si è lanciato poi in un endorsement della Cina, ricordando come proprio con il Paese orientale le collaborazioni cinematografiche abbiano radici profonde. Talmente profonde che risalgono al 2016, quattro anni fa. Ma si sa, il tempo vola.
Non solo: Di Stefano ha rivendicato erroneamente la paternità di provvedimenti che non c’entrano nulla col governo gialloverde: «Abbiamo siglato già da tempo un memorandum d’intesa tra il Ministero dello Sviluppo economico e il l’Amministrazione statale di stampa, editoria, radio, cinema e televisione cinese nel 2016, che chiaramente ci permette di lavorare su quelle specificità richieste in ambito culturale» ha continuato il sottosegretario.
Nel 2016, tuttavia, al governo c’era Matteo Renzi, e il memorandum citato da Di Stefano è in realtà stato firmato dal sottosegretario allo Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli, e il ministro dello State Administration of Press, Publishing, Radio, Film and Television (Sapprft) Cai Fuchao.
Da qui, il caos argomentativo: «Molto più potente come messaggio un divo banalmente di un altro Paese che viene poi visto in una realtà come quella italiana e quindi lasciando un ricordo molto più legato alle proprie tradizioni e al proprio modo di sentire» ha detto, testuale, il sottosegretario sicuro di aver dato adito a un teorema di business avanzato.
Il tutto farebbe perno, secondo Di Stefano, sulla condivisione con la Cina dei «temi cari al nostro cinema, come la famiglia». Il che potrebbe rivelarsi più difficile del previsto, in quanto come cultura familiare Italia e Cina hanno decisamente due visioni molto diverse riguardo la crescita. La seconda, infatti, ha adottato per oltre vent’anni – fino al 2015 – la politica del figlio unico: una norma lesiva dei diritti individuali dei cittadini cinesi, impossibilitati a programmare liberamente il proprio futuro. Un modello di crescita ed educazione decisamente diverso da quello italiano.
Alle motivazioni, Di Stefano ha aggiunto il dato analitico sul mercato del cinema cinese, accompagnato con tanto di mano oscillante da banco degli affettati: «Un mercato enorme di circa un miliardo di persone, con 25 mila sale cinematografiche… sentivo dire prima», ha detto riportando una chiacchiera carpita chissà dove, ma su cui si può fare tranquillamente affidamento.
Lo spot pubblicitario pro Cina del sottosegretario Cinquestelle è durato 13 minuti. La delegazione cinese presente, secondo Di Stefano, è «inutile dire» che sia «solida». Qualunque cosa volesse dire.
Di Stefano non è nuovo a certe sviolinate nei confronti del regime di Xi Jinping: anche in merito alle proteste a Hong Kong, il grillino riscosse dure critiche dell’opposizione per un commento sui fatti che per molti aveva i toni di una assoluzione degli amici cinesi: «C’è un principio di autodeterminazione che va tutelato».
E dopo aver sottolineato di nuovo le affinità dei valori che le famiglie italiani e quelle cinesi condividono e aver promosso ripetutamente co-produzioni italocinesi, Di Stefano ha chiuso l’intervento con un detto cinese: «看一次就好比聽一百遍». Ovvero: «Vedere le cose una volta è meglio che sentirle cento volte». Che, per il momento, non si può certo dire valga anche per il suo caso.
Nel frattempo è uscito nella maggior parte delle piattaforme di streaming online il film della Disney Mulan (una co-produzione tra Stati Uniti e Cina), finito nel mirino di attivisti e sostenitori della democrazia a Hong Kong perché la stessa protagonista del remake, Liu Yifei, statunitense di origini cinesi, nel pieno delle proteste pro-democrazia aveva espresso chiaramente il suo appoggio alla polizia di Hong Kong.
Il capolavoro però Di Stefano lo ha confezionato su Instagram. Dopo aver pubblicato una foto di lui sorridente a Lido con la descrizione: «Mai prendersi troppo sul serio, nemmeno sul red-carpet della Mostra del Cinema di Venezia» un utente gli ha risposto, forse non a torto, cosa c’entrasse il sottosegretario agli Esteri su un tappeto rosso di un festival cinematografico. Contraddicendo l’aplomb di poco prima, Di Stefano ha risposto che tutta quella «baracca» c’entrava eccome con le sue deleghe. Non proprio un linguaggio diplomatico. Ma di questi tempi.