Siamo al giorno millenovecentonovantamillemila di dad, misurato in tempo genitoriale, e le schiarite su una possibile riapertura dopo Pasqua (siamo un Paese in ostaggio delle festività, o delle grandi metafore) non mi danno più emozione, sono diventata una di quelle che accettano ciò che non possono cambiare.
Nessun brivido, nessun palo santo che brucia, non spargo più sale grosso agli angoli di casa, ogni giorno esce un nuovo studio su quanto la riapertura delle scuole abbia o non abbia influito sui contagi, ma sono forse scienziata io? Sono forse virologa, io?
Cosa volete che ne sappia, è andato tutto in malora, adesso non è che posso mettermi lì a capire gratuitamente dei grafici, faccio un altro mestiere, lasciatemi in pace e ditemi se mio figlio corre dei rischi a tornare a scuola, che cosa pago le tasse a fare, cosa?
Aspettiamo con pazienza che Gesù risorga, e poi mettiamoci la testa.
La verità è che questo tempo ci ha dato modo di pensare troppo, sono qua che faccio un bruco con un calzino spaiato con la babysitter che mi manda una lista di cose da fare (che cos’è il genio: avere la tata che viene direttamente da Brera, l’Accademia, non via Fiori Chiari), e tutto questo tempo per stare con mio figlio chi mai me lo aveva concesso, e perché mi sento in colpa a volerne di meno, che mostro che sei.
Ci lamentiamo in continuazione che abbiamo poco tempo per stare con i figli poi boom, uno mangia un pipistrello dall’altra parte del mondo e com’era quella cosa dell’albero che cade in Amazzonia non ricordo, pandemia, scuole chiuse, lockdown, zona rossa, e ci ritroviamo a volere meno tempo, meno tempo, perché di tempo ne abbiamo in avanzo.
E poi vengono a parlarti del tempo di qualità, e ci credo che me ne parli caro psicologo infantile che dai lezioni su Facebook, me ne parli perché non mi vuoi far sentire in colpa se desidero passare meno tempo con il mio bambino. Mi ritrovo a pensare un po’ troppo, lo ammetto.
Un pensiero che mi tormenta, e che non credo di riuscire a formulare in maniera coerente, è il seguente: ci sono mai stati grandi geni che abbiano trascorso un’infanzia felice? Mi sto accorgendo che mio figlio subisce tutto questo amore di mamma e papà verso di lui e tra di loro, questi desideri esauditi prima ancora che possa esprimerli, giochi, giocattoli, torte che non mangia mai, ha i pieni poteri, giusti, giustificati, una felice tirannia qui a Fantasilandia.
Non ha motivo di avere uno scarto, un desiderio verso qualcosa che non ha, perché ha quello che vuole, e allora mi chiedo: di cosa parlerà quando crescerà? Si inventerà un dramma? Avrà bisogno di crearne uno? Com’è stata l’infanzia di Nerone? Mi ucciderà? Oppure non mi accorgo che ha bisogno di una mancanza? Può la mancanza diventare necessità e desiderio e aspirazione? E come faccio a creargli una mancanza? Con la plastilina? Ma poi perché, perché deve diventare Philip Roth, per fare felice sua madre (beh, sì)?
Ultimamente mi dice che vuole diventare scienziato perché è stato circuito da “Siamo fatti così”, divulgativo medical drama dei bei tempi che furono, mi ricordo che piaceva tanto anche a me, anche se son qua che faccio intrattenimento e non scienza, mi chiede in continuazione se sono più cattivi i virus o i batteri, mi chiede di elencargli tutte le malattie del mondo, e forse la scienza non ha bisogno di drammi da risolvere; non diventerà Philip Roth, ma forse salverà delle vite (non che Philip Roth, eccetera).
Come ho speso male il mio tempo pandemico, avrei potuto studiare, leggere, imparare qualcosa o insegnare qualcosa a mio figlio, sono qui con un calzino spaiato e non so che farmene, sono a malapena riuscita a colorare mandala di ingiurie e spergiuri, però stando nei bordi.
Alla tv mio figlio sta guardando un cartone animato dove c’è un fungo che dice: «Cosa fanno le persone tutto il giorno se non cercare di sopravvivere?» e come lo capisco, vieni qui, abbracciamoci e capiamo come uscirne. Però aspettiamo dopo Pasqua, che forse riaprono le scuole.