Ho cominciato a leggere Philip Roth perché era un maniaco sessuale. Avevo diciott’anni, e nessuno me l’aveva mai nominato, i giornali non ne erano ossessionati; era l’anno in cui in America era uscito “Inganno”, che da grande avrei deciso fosse il mio Roth preferito, ma allora non ne sapevo niente.
La prima volta che lessi il nome di Roth fu sul diario del mio ultimo anno di liceo. Era una Smemoranda, il tema era l’America, e tra quelli che avevano scritto una paginetta per rendere meno sceme le liceali c’era Michele Serra.
Il suo trucco narrativo era semplice. Cominciava con «a parte», seguiva un lungo elenco di meravigliose americanate, e concludeva con «la cultura americana non mi ha mai influenzato».
Nell’elenco c’erano anche cose che mi offesero molto: Serra osava dire che Kim Basinger gli piaceva sempre, «tranne quando balla come Carmen Russo nella bruttissima scena dell’orribile film “Nove settimane e mezzo”». Nove settimane e mezzo era uscito quando avevo tredici anni, era un mio film di formazione, e la sdegnata me – ho recuperato quel diario sotto strati di polvere, madeleine, e imbarazzo per la me diciottenne – annotò: «come ti permetti?».
(A diciott’anni è tutto ancora intero, compresa la convinzione che tu i miei film del cuore li lasci stare, capitoooo).
In quell’elenco di cose della cultura americana che avevano influenzato il mio elzevirista preferito c’era Jimi Hendrix «(Janis Joplin no perché mi è sempre stata sulle palle)» – parentesi per cui oggi un’accusa di sessismo non gliela leverebbe nessuno; ma, soprattutto, c’era: «Portnoy quando scopa il pranzo di famiglia (una fetta di fegato)». La prima cosa che ho saputo di Philip Roth è che il suo io narrante si faceva una sega con la carne che la madre avrebbe fatto a dadini e cucinato più tardi.
“Il lamento di Portnoy” uscì in America nel 1969, cinquantadue anni fa; quando Serra lo citò era il romanzo più famoso di Roth. Un romanzo il cui protagonista si definiva «il Raskolnikov della masturbazione». Oggi un editor glielo farebbe cambiare; cosa vuoi che riconoscano, i lettori, il nome del protagonista di “Delitto e castigo”: vorrai mica fare un libro di nicchia?
All’epoca evidentemente il problema non si poneva: Portnoy vendette un numero di copie che oggi si sognano anche i cataloghi di penzierini per femmine dolenti (le più forti tra le lettrici forti); se Roth era dispiaciuto d’essere ufficialmente un maniaco sessuale, tenne per molti anni per sé questo dispiacere, bullandosene come sanno fare i migliori romanzieri del sé, quelli consapevoli che se ti appropri dei tuoi difetti essi diventeranno le tue forze.
Da un’intervista del 1981: «Diventare una celebrità è diventare un marchio. L’Ivory soap, i Rice Krispies, e Philip Roth. L’Ivory soap è il sapone che galleggia; i Rice Krispies sono i cereali che scrocchiano; Philip Roth è l’ebreo che si masturba con un pezzo di fegato. E ne ricava un milione di dollari in diritti d’autore».
(Poi, nel secolo successivo, cercò disperatamente un biografo che fosse disposto a scrivere la sua vita non in forma di Storia del mio pene, giacché può succedere che uno si stufi d’essere il cliché che ha contribuito ad alimentare).
Avanzamento veloce di quarant’anni rispetto all’intervista in cui si vantava d’esser marchio, e di trenta rispetto al mio ultimo anno di liceo. A maggio saranno tre anni che il maniaco sessuale è morto. Quindici anni fa Nora Ephron, a proposito del diverso margine d’autobiografismo concesso agli scrittori autorevoli a seconda ch’essi siano maschi o femmine, mi disse: «Philip Roth scrive solo delle sue fidanzate, e nessuno glielo fa pesare». Ma pure Ephron è morta (muoiono tutti, screanzati, e ci lasciano soli con scrittori mediocri dall’impeccabile fedina morale), e qualcuno, nella cabina di regia della conversazione culturale, deve aver deciso che Roth era uno che scriveva di epidemie (“Nemesi”) o di fascismo (“Il complotto contro l’America”), mica della sua prostata (elenco di titoli troppo lungo).
Solo così si spiega il fatto che all’inizio del 2021 escano due sue biografie, e i critici culturali improvvisamente scoprano, indignati, che Roth era un maniaco sessuale. Andava a puttane, puntesclamativo (la maleducata sono ovviamente io, gli indignati le chiamano «sex worker»). Era contento che la prima moglie, da cui si stava separando, fosse morta in un incidente così non doveva darle metà dei suoi guadagni, puntesclamativo. Disse alla seconda moglie che non poteva più scopare per i dolori alla schiena, ma con le altre scopava (finalmente so a chi aveva rubato la scusa mio padre: non l’avrei mai detto lettore forte, ma tu pensa).
Diceva che la figlia della seconda moglie era cicciona e non capiva perché non si mettesse a dieta, scandalo, fat shaming, body non positive (di recente ho frequentato una signora nata tre anni dopo Roth; ogni volta che mi vede, mi fa un’indignata predica sul mio ostinarmi a non cercare di smaltire le mie trippe: dev’essere bellissimo aver vissuto in un secolo in cui, se vedevi una grassa, non dovevi pensare ai giri di parole da fare per dirle che era comunque bella).
La mia preferita delle indignazioni è relativa al fatto che Roth non amasse essere interrotto, mentre scriveva, da una moglie che gli chiedeva d’andare a comprare il parmigiano. Non aiutava in casa, puntesclamativo. Sessista, puntesclamativo. Lasciate che ve lo dica in quanto portatrice asintomatica di vagina: se qualcuno, mentre scrivo, m’interrompe perché è finito il parmigiano, il giorno dopo entrambi i nostri nomi saranno in cronaca nera.
È interessante come le situazioni dalle quali secondo gli indignati Roth esce come un mostro siano situazioni di fronte alle quali una persona sana di mente sospira: Philip, non potresti frequentare gente meno idiota? La prima moglie che per farsi sposare compra l’urina d’una gravida per fingersi incinta. La fidanzata (che poi sposerà Saul Bellow) che pretende lui la accompagni dal parrucchiere. Il biografo con cui litiga che, nel 2004, dichiara senza mettersi a ridere che tanto ormai è uno scrittore finito, pubblica solo robaccia (elenco parziale di libri pubblicati da Roth nel decennio che precede questa dichiarazione: “Il teatro di Sabbath”, “Pastorale americana”, “Ho sposato un comunista”, “La macchia umana”, “L’animale morente”, “Il complotto contro l’America” – uno scrittore alla frutta, invero).
Tuttavia, il mio scandalo preferito è quello relativo non tanto alla sua attrazione per un’amica magra della figlia della seconda moglie, loro ospite, quanto alla frase che il maniaco sessuale disse in propria accusa, convinto fosse difesa: «Che senso ha avere in casa una bella ragazza se non te la scopi?». Philip, meno male che sei morto. Scoparti la fettina di fegato sarebbe al massimo stato specismo (o zoofilia?). Ma, per l’amica della figliastra, un documentario à la Allen v. Farrow non te lo levava nessuno.