Dammi 3 parole: ciccia, chiatta, buzziconeNoemi e gli adulti incapaci di ridere delle proprie trippe

La cantante ha detto di essere dimagrita quindici chili e non quaranta, spiegando che prima non era una «buzzicona terrificante». Sui social, naturalmente, si sono offesi. Se la sono presa con lei, mica con tutti quelli che negli anni le hanno dato di culona

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Le uniche foto paparazzate al mare non disgustose che abbia mai visto erano, anni fa, quelle di Afef Jnifen, che faceva il bagno indossando canotta e pantaloncini sopra al bikini. Non ho mai indagato se fosse una questione culturale, religiosa, o semplicemente estetica: la più bella donna d’Italia sapeva che meno ti scopri e più sei interessante.

Pur non essendo mai stata gnocca un millesimo di Afef, credo di non aver mai fatto un bagno in costume nella mia vita adulta. Non perché pensi che una maglietta illuda qualcuno che là sotto non ci siano le mie trippe ma le ossa di Kate Moss: perché faccio agli altri ciò che vorrei fosse fatto a me. E a me farebbe tanto piacere se non mi mostraste le vostre carni. (Poiché voi non ricambiate e non vi coprite, a scopo di riduzione del danno visivo vado a fare il bagno prima delle nove di mattina; una volta ci andavo dopo le sei di pomeriggio, poi è arrivata l’happy hour e l’umanità ha iniziato a infestare le spiagge anche al tramonto).

Negli ultimi giorni ho scoperto che l’opportunità ora è un problema, anzi un dramma, nell’epoca senza guerre in cui noialtri sfaccendati d’occidente ci procuriamo drammi immaginari.

Mentre in Italia Vanity Fair metteva sulla copertina Noemi (in ordine d’importanza: dimagrita, concorrente di Sanremo, cantante) che – con la dolenza con cui da sempre le celebrità femmine posano da dimagrite sulle riviste femminili come se avere perso dei chili fosse il primo passo verso un Nobel per la letteratura e non solo il risultato d’una deprivazione calorica che le ha fatte essere di malumore per mesi – diceva «Per una che a 13 anni faceva il bagno al mare con la maglietta è tanta roba capire che si può essere accoglienti anche da molto magre», in Inghilterra il Mail fotografava in barca Jonah Hill (in ordine d’importanza: attore in quel capolavoro che era The Wolf of Wall Street, tizio a tasso variabile di culonaggine).

Il commento con cui Hill chiosava il sé stesso paparazzato con rotoli era un francescabertinismo che in confronto Noemi la prendeva bassa: «Non credo di essermi mai tolto la maglietta in piscina fin verso i 35 anni. Probabilmente l’avrei fatto prima se le insicurezze della mia infanzia non fossero state esasperate da anni di pubblica irrisione del mio corpo da parte della stampa e degli intervistatori».

A parte che vorrei vedere l’intervistatore di attore hollywodiano che sghignazza dandogli del chiattone, ma è possibile che siamo diventati una società di adulti incapaci di ridere delle proprie trippe? «Ho 37 anni, e infine mi amo e mi accetto. […] Questo post è per i bambini che in piscina non si tolgono la maglietta. Siete meravigliosi e stupendi e perfetti». Beh, no. Perfetto, quasi nessuno. Stupendo, qualcuno (pochi). I più sono ordinari, e da quando invece abbiamo iniziato a pretendere d’esser tutti speciali, eccoci qui: che i bambini perfetti diventano adulti che frignano sulle loro trippe, che frignano su quello che li sfotteva alle elementari, trent’anni prima.

Alle medie avevo una compagna di banco che si chiamava Fiamma. Alle elementari l’avevano tormentata per il nome: non volevano giocare con lei dicendole «Bruci!». È diventata una psichiatra. Ogni tanto mi chiedo se curi questi che non hanno avuto gli strumenti per uscire dalle piccole spiacevolezze dell’infanzia, e le chiamano «traumi». Ogni tanto vorrei chiamarla per chiederle se le capitino pazienti adulte che, se uno dice «Ti chiami Fiamma? Bruci!», ancora si mettono a piangere.

La situazione dell’umanità che fa il bagno con la maglietta non per pudore ma con lo spirito con cui alle medie ci legavamo il golf in vita è peggiorata ieri, quando, a domanda del Messaggero, Noemi ha risposto che, sebbene tutti scrivano che ha perso quaranta chili, «non ero questa buzzicona terrificante. Però quindici chili li ho persi». L’intervistatore, consapevole dell’identitarismo buzzicone e della suscettibilità collettiva, appone un «[ride]» dopo «buzzicona terrificante», ma non basta.

Sui social è tutt’un offendersi in quanto buzzicone che pretendono d’essere chiamate curvy (si sa che se lo dici in inglese lo specchio ti rimanda subito un’altra immagine), o in quanto fanatiche della dieta che se prendessero mezzo chilo si butterebbero dalla finestra ma ci tengono a posizionarsi dalla parte della body positivity (la versione inglese di quella puttanata che è «ognuna è bella a modo suo»: se siamo tutte belle non esiste l’estetica, se non esiste l’estetica perché ci teniamo tanto a essere belle?).

Ieri pomeriggio, per capire i termini della polemica, ho messo nella ricerca di Twitter “Noemi buzzicona”. I primi tweet che uscivano – quelli più visti, non quelli più recenti – imprimevano al dibattito una svolta interessante. Ne ricopio alcuni, con la data in cui sono stati pubblicati. «Ma da 1 a 10 quant’è buzzicona Noemi?» (8 febbraio 2018, durante il Sanremo di quell’anno); «Noemi sei una buzzicona!» (25 aprile 2013); «La cantante dei Landlord sembra Noemi meno buzzicona» (22 ottobre 2015, con cancelletto che fa riferimento a X Factor); «Noemi borgatara burina buzzicona cozza» (14 maggio 2014, cancelletto riferito a The Voice).

Ricopio questi penzierini non per dimostrare che l’umanità è brutta e cattiva (chi l’avrebbe mai detto), o che la tv è immagine e se sei chiatta e vai in tv ci sarà sempre chi non ha di meglio da fare che insolentirti (ma tu pensa), o per chiedere una legge contro il buzzicona speech.

Lo faccio per dire che a volte le parole appartengono a chi le dice.

Per dire che, se dopo esserti presa il disturbo di dimagrire (tu che di mestiere stai su un palcoscenico, ed è almeno dai tempi della Callas che sappiamo che è più semplice starci da magra), ridi di te e della tua trascorsa buzziconaggine in un’intervista, stai seguendo la regola di base degli autori di memoir: se ti appropri della storia – e dei suoi dolori, delle sue parolacce, delle sue goffaggini – allora quella storia non sarà più usata da altri per ferirti, ma da te, nei tuoi termini.

Per dire che, se fossimo meno impegnati a curare il nostro ombelico, forse ogni «buzzicona» non ci parlerebbe di noi, ma ci direbbe che ehi, guarda, c’è una che si è sbattuta a mangiare verdure lesse, e ora che le entrano vestiti con parecchie taglie in meno vuole ridere della buzziconaggine astratta: riderne, non vietarla per legge, non mandare in un lager me che continuo a mangiare i bucatini.

E non sta ridendo di te, che sei ancora buzzicona e ti senti offesa e le rinfacci che compravi i suoi dischi (perché ti piacevano le canzoni o per solidarietà buzzicona?): neanche sa che esisti, ti pare sensato sentirti oggetto d’una sua frase?

Forse, se fossimo meno impegnate a cercare minacce alla nostra identità e al nostro amor proprio, ci accorgeremmo che a noi gli altri – quelli sani di mente, non quelli che stanno sui social – non pensano proprio. Neanche per darci delle buzzicone.

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