«In questi mesi, osservando le priorità della politica globale alla luce della pandemia, abbiamo raggiunto la convinzione che si debba riconsiderare un po’ tutto». Esordisce così Mario Monti in un’intervista alla Stampa. L’ex premier tira le somme del primo rapporto scritto dalla Commissione Paneuropa sulla Salute e lo Sviluppo, il gruppo indipendente creato la scorso autunno dall’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) che l’economista ha l’onere e l’onore di presiedere.
«Non ci hanno chiesto di dire come superare l’attuale emergenza Covid-19, ma di guardare avanti con raccomandazioni su come prevenire future pandemie e catastrofi sanitarie globali». Il risultato? C’è molto da fare e rifare. La risposta deve essere globale, in casa Onu come nell’Unione europea, «insoddisfacente», quest’ultima, perché non aveva i poteri per agire. «Non si può razionalmente pretendere che una struttura sovranazionale faccia più di quanto le consentono i poteri che le vengono conferiti», afferma al quotidiano torinese.
Gli interventi devono però partire proprio dalla sanità. «La medicina di prossimità, i medici di famiglia – spiega l’ex premier -, non hanno potuto svolgere un ruolo di avamposto al diffondersi del virus, e il peso della pandemia si è caricato sugli ospedali, in Italia e un po’ ovunque. Si impone una revisione del sistema sanitario e della previdenza sociale».
Come intervenire? «Si deve ragionare in termini di “One Health”, lavorando sul legame fra la salute dell’uomo, degli animali e del pianeta. È la sfida della biodiversità come del cambiamento climatico», continua Monti.
Si passa poi al problema governance, nazionale e internazionale. «La governance attuale non risponde alle esigenze emerse dalla pandemia. Per rispondere, vedo due priorità. La prima è mantenere e rispettare la biodiversità – altrimenti salta l’equilibrio della natura. La seconda, spinge a predisporre sistemi efficaci di “early warning” da un paese all’altro allo scattare delle epidemie», puntualizza ancora.
Tutto questo, secondo l’economista, deve essere inserito in un quadro normativo più incisivo. Perché «è necessario un trattato internazionale sulle pandemie, visto che non ci sono elementi cogenti sui singoli governi, in questa materia», chiosa Monti. Che poi si lascia andare a una digressione sulla pandemia come figlia della “vecchia normalità”: «Nell’assetto esistente prima della pandemia sapevamo che c’erano delle cose non ottimali. Quel che non sapevamo è quanto fossero lontani dall’esserlo. Dopo la crisi dei debiti sovrani, gli stati con problemi di debito hanno cercato di ridurre la spesa sanitaria, non sempre con le ricette migliori e più razionali; allo stesso tempo, nell’Ue si è resistito a dare maggiori poteri in materia sanitaria a Bruxelles. Ora sarebbe un clamoroso errore tornare alla “vecchia normalità”. La pandemia ci costringe a rivedere le politiche, per avere un modo più solido e resiliente».
Infine, l’ex premier prova anche a raccontare la forza di un evento come la pandemia in termini economici. «Lo sconquassamento economico è stato anche drammatico, a partire dall’effetto sui bilanci pubblici. Il modo in cui in tutti i paesi le politiche economiche cercano di rimediare ai danni della pandemia, sono a loro volta distorsivi. Li accettiamo perché non abbiamo scelta. Sappiamo che per certi paesi aumentare i debiti è un pericolo. In futuro si imporrà una diversa sensibilità nella gestione dei conti pubblici. Sistema di bilancio pluriennali, che cerchino di incorporare valutazioni del rischio che determinate restrizioni di spese in alcuni settori, non in altri, finiscano per provocare eventi avversi di vasta scala, con conseguenti aumenti di spesa anche maggiori dei risparmi che si era cercato di effettuare», dice Monti.
Bisogna quindi rivedere il sistema finanziario globale? «Conosciamo la potenza delle istituzioni finanziarie, come la Bei e il Fmi. Una delle cose interessanti sviluppatesi in questi anni è la “finanza verde” che si sta incentivando. Bisognerebbe scoraggiare comportamenti di investimento che creano “mali pubblici”, una sorta di “chi inquina paga”», conclude l’economista.