In nome del BeneChe tristezza l’epoca che riduce la letteratura a terapia

La nuova missione di chi scrive è riparare il mondo, consolare gli afflitti e preparare ai fallimenti. Il lato estetico, la qualità, la bellezza passano in secondo piano o addirittura suscitano spavento spiega Walter Siti in “Contro l’impegno” (Rizzoli). L’unico messaggio ammesso in questa neo-barbarie è la bontà

LaPresse - Claudio Furlan 23/04/2017 Milano ( IT )

«Un recente studio dell’università di Yale ha avanzato l’ipotesi che leggere letteratura aumenti la speranza di vita e calcola in due anni il guadagno derivante da un regolare consumo di romanzi»; citando i risultati di questa buffa ricerca, Alexandre Gefen (“Réparer le monde: la littérature française face au XXIe siècle”, Editions Corti 2017) fortunatamente non sa trattenere l’ironia, ma nota comunque che a questa notizia è stato dato sui media «uno straordinario risalto».

Il suo serio, accademico e fin troppo documentato volume (centoventi pagine di bibliografia e note), che incrocia nel titolo il Réparer les vivants di Maylis de Kerangal con il «we can repair the world» di Obama, cioè una scrittrice e un politico, non ha l’aspetto di una teoria e in fondo nemmeno di un saggio critico ma piuttosto di una constatazione: nei primi vent’anni di questo secolo la letteratura francese (in filigrana si legge «la letteratura occidentale») è uscita dalla lunga parentesi dell’intransitività letteraria, della letteratura autonoma e «disinteressata», è uscita dall’ideologia che «giudicava la qualità letteraria attraverso criteri formali» per ritrovare a pieno la propria funzione sociale.

Si può obiettare che una tale funzione la letteratura non l’ha mai veramente perduta e che la forma è «contenuto sedimentato» (secondo l’illuminante definizione di Adorno), e che forse i francesi si erano fatti un po’ troppo imbambolare dall’arte per l’arte, dall’Oulipo e da Tel Quel, ma non c’è dubbio che il secolo iniziato col crollo delle Torri gemelle (e l’abbattimento del Muro di Berlino era stato precursore) si sia presentato, nel sentire comune mediatico e politico-culturale, come il secolo in cui ogni disimpegno letterario è diserzione – se i nemici spuntano da ogni dove, non c’è tempo per seguire il volo delle farfalle. Nel pendolo incessante tra autonomia ed eteronomia dell’arte, l’ora presente batte dalla parte dell’eteronomia.

Su BrainPickings (un blog statunitense che vanta oltre un milione di contatti ogni mese) la fondatrice Maria Popova ha scritto nell’ottobre del 2014: «Le quattro funzioni della letteratura sono: economizzare tempo, renderci più gentili, guarire dalla solitudine, prepararci a superare i fallimenti». Nessun accenno alla bellezza e ai suoi effetti contraddittori (e se uno per superare un fallimento avesse bisogno di tempo? o se gli servissero fallimento e solitudine per renderlo più gentile?); ma soprattutto nessuna esitazione sul fatto che la letteratura debba essere giudicata in base ai suoi effetti. Come sono lontane le stagioni in cui Jakobson sosteneva che la funzione letteraria della lingua era quella di costringere il messaggio a riflettere su se stesso!

Al centro delle analisi letterarie che ora appaiono più aggiornate (la biocritica e il darwinismo letterario) non c’è tanto la ricerca del senso quanto lo studio sull’efficacia; non quel che un testo significa ma come il nostro cervello si modifica quando leggiamo quel testo, o quali testi attivano più sinapsi cerebrali, o quali elementi del testo lo aiutano a sopravvivere nella struggle for life della contemporanea babele comunicativa.

Il libro di Gefen si fonda largamente sui principî della biocritica e del darwinismo: se il testo letterario ci è utile per allenarci alla vita sociale e farci adattare alle situazioni nuove, allora è ovvio che salga in primo piano una funzione curativa della letteratura.

Nei suoi sette capitoli, il libro esamina le capacità «riparatrici» del testo letterario via via di fronte a se stessi, alla vita, ai traumi, alla malattia, agli altri, al mondo e al tempo – con una tassonomia e un’escalation dall’allure medievale che si oppone polemicamente al modernismo assolutizzante e pensoso, svincolato dall’attività pratica. La letteratura francese degli ultimi vent’anni (Gefen non ha dubbi su questo) intende «agire, rimediare alle sofferenze» – Maylis de Kerangal «vuol fare del bello mediante il bene, e del bene mediante il bello», Emmanuel Carrère in “Vite che non sono la mia” insegna (perché lui stesso l’ha imparato) che ciò che ci unisce agli altri è più importante di ciò che ce ne distingue.

Si tratta di una buona scrittrice e di un grande scrittore, ma Gefen non ha alcun problema a metterli accanto a scrittori mediocri o pessimi, o perfino ai prodotti collettivi degli ateliers d’écriture. Si tratta di risocializzare la letteratura, di «democratizzarla», di «rivalutare le lacrime così a lungo screditate»; se il criterio per giudicare la letteratura è il bene che fa, allora che cosa può importare se sia bella o brutta letteratura?

I due miliardi di persone che annualmente postano su Facebook i dettagli della loro vita probabilmente ne traggono giovamento, come Goethe trasse giovamento personale dall’aver scritto il Werther (ma i genitori dei ragazzi che si suicidarono dopo averlo letto?).

Parlare di sé e dei propri traumi procura beneficio ai traumatizzati, tutti i manuali di self-help lo consigliano e non per nulla si istituiscono nelle carceri e nei centri di igiene mentale dei corsi di scrittura creativa. Dagli anni Novanta del secolo scorso sono venute di moda le “autopatografie”, cioè le autobiografie dei malati, che fosse di tumore o di AIDS; i figli hanno scritto sull’Alzheimer dei genitori, i genitori su come si supera il lutto per la morte precoce di un figlio (Gefen raccomanda il Dante della “Vita nova” come grief counselor, trascurando chissà perché Boezio); la letteratura si è fatta ecologica nel rivalutare i territori trascurati (le campagne, le banlieues, le grotte del Pakistan), si è fatta tribunale per correggere le «ingiustizie della Storia» ricordando vicende trascurate o rimosse.

Tutte cose ovviamente che la letteratura ha sempre fatto, da Lazarillo de Tormes e Ruzante fino a Manzoni e Pasolini e Solženicyn, ma Gefen sottolinea che ora questa è diventata la linea dominante, sostenuta dalle istituzioni che finanziano gli atelier; ora «il valore letterario si misura sull’efficacia terapeutica», una letteratura «non più emancipatoria ma riparatrice»: su Babelio e Lecteurs.com, due noti blog, esiste una sezione di “biblioterapia”.

Emmanuelle Pagano in “Nouons-nous” (Editions P.O.L. 2013) ritrae in modo icastico questo nuovo sentire: la protagonista ordina a una ditta farmaceutica specializzata dei blister di capsule trasparenti, ci mette dentro delle brevi frasi letterarie e si impone di leggerne una ogni mattino pomeriggio e sera. La letteratura rafforza il sistema immunitario dei lettori fortificandoli nella lotta contro il Male.

Non più vite messe al servizio della letteratura ma una letteratura messa al servizio della vita. Dalla neutra analisi dell’efficacia si passa senza sussulti visibili alla promozione dell’efficacia positiva; si concorda col biocritico William Flesch quando scrive che «le finzioni servono a mantenere l’ottimismo della specie». La letteratura francese in questi anni, sostiene Gefen, «tende a diventare letteratura d’intervento» basata su «un’orizzontalità partecipativa»; nemmeno il vecchio sano intrattenimento rosa o giallo si salva, perché la letteratura non è più «destinata a procurare piacere ma a combattere l’infelicità del mondo».

da “Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura”, di Walter Siti, Rizzoli, 2021, pagine 272, euro 14

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