Identità di memeQuelli che straparlano di genere e non si accorgono di tifare per i disturbi mentali

Con il consueto zelo, la sinistra cancellettista ha colpito a suon di post e status i suoi avversari di buon senso. Dimostrando di non capire nemmeno il significato delle battaglie d’importazione per cui combatte

da Wikimedia Commons

L’America è lontana: non tanto dall’Italia smaniosa di sembrare moralmente presentabile emulandola, ma dall’altra parte della luna rispetto all’Inghilterra.

Le femministe inglesi sono quelle che, nella più estrema delle ipotesi, considerano la questione delle donne trans una pagliacciata fatta (scusate la sintesi brusca) per sostituire il genere femminile con uomini che dicono di percepirsi donne; nella più diplomatica delle ipotesi, osano dire che il genere sessuale non è una cosa «assegnata alla nascita», come si usa dire in neolingua postmoderna.

Se non ti hanno bocciato alle scuole dell’obbligo, sai che il genere sessuale è biologico: è quel pisellino che si vede o non si vede nell’ecografia, non una prepotenza dell’ostetrica che t’assegna d’imperio a uno dei due (che numero misero) possibili.

L’altro giorno mi è comparso il favoloso tweet d’un’inglese che, esasperata dalle lezioncine delle americane che liquidano ogni obiezione dandoti della transfobica, è sbottata: noi abbiamo l’aborto gratuito, il congedo di maternità, il primo capo di Stato donna alcuni secoli fa e il primo capo di governo donna alcuni decenni fa; grazie tante, ma sappiamo cos’è il femminismo.

Se sei italiana, invece, e hai più smania di postmodernismo che di rivendicazioni dei tuoi vantaggi, avrai la stessa disinvoltura degli americani nel prendere la scorciatoia più comoda per sembrare di sinistra: tacciare di transfobia chiunque osi avere una considerazione più adulta di «trans buoni, dibattito cattivo» rispetto alla questione dell’identità di genere.

Dire «ci vuole la legge contro l’omotransfobia, puntesclamativo» ti farà diventare virale su Instagram. Dove nessuno ha letto il testo della legge Zan, e nessuno si chiede che differenza ci sia tra «genere» e «identità di genere» (definizioni identiche in una legge che però distingue i due concetti); dove tutti fanno finta di pensare che, se per strada mi picchi perché bacio qualcuno, senza la Zan la legge non ti punisca; dove nessuno spiega come si configuri l’aggravante: se non ti picchio urlando «ti sto picchiando perché sei un brutto busone», e magari declamando anche il mio indirizzo di residenza acciocché la polizia mi venga a prendere con più comodo, come stabilisce un giudice l’aggravante omofobica?

Martina Testa è una nota traduttrice. La conosco quel poco che mi basta a definirla veterocomunista, nonché una delle persone più miti che abbia mai incrociato.

Queste due caratteristiche l’hanno resa una cocca del sinistrismo romano. Finché, con la fine della pazienza che non poteva non cogliere chi si occupasse di editoria e traduzioni rispetto al caso Gorman, non ha detto un paio di ovvietà sulla morte della letteratura se smette d’essere una porta e diventa uno specchio (la sintesi è mia, la definizione è rubata a Fran Lebowitz).

Ha poi sviluppato le sue riflessioni in un’intervista, ma inizialmente erano commenti a un post pubblicato su Facebook da Nicola Lagioia. Lagioia, oltreché uno scrittore, è il direttore del Salone del libro di Torino, e non sarò certo io a dire che è stato più semplice prendersela con la Testa (è una di noi che ci teniamo all’articolo davanti al cognome) che con Lagioia: metti che domani ho un libro da promuovere, metti che non m’invitano al Salone.

Quindi la Testa, la JK Rowling che possiamo permetterci, è diventata il nemico pubblico numero uno della sinistra cancellettista, quella che hashtagga tutto il giorno mozioni arcobaleno, che non sa di cosa parla ma ne parla tantissimo, che si crea il suo piccolo spazio d’influenza e lo spaccia per dedizione alle buone cause.

Dopo la Gorman, la Testa – evidentemente decisa a essere bruciata a Salem – ha osato intervenire sulle vaghe e scemissime istanze delle tizie la cui parola preferita è cis («cis» indica coloro che, essendo nate con una vagina, si definiscono femmine, o essendo nati con un pene si definiscono maschi: coloro cioè per i quali non c’è alcun bisogno di definizione, a meno che tu non sia così invasato da voler negare ch’essi siano la norma, e determinato a fingere siano invece una delle infinite variazioni sui generi, che attualmente il postmodernismo conteggia a 122).

Ha scritto la Testa, ricopio dalla sua bacheca, in risposta a un qualunquemente scemo articolo identitario: «In un momento storico in cui (dopo decenni di lotte per i diritti, anche identitarie, quando serviva) una donna nera africana, Ngozi Okonjo-Iweala, diventa direttore generale dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio ed è, letteralmente, come pochi di noi nella posizione di creare delle regole d’ingaggio (certo dalle donne italiane di chi è Iweala, di cosa rappresenta, di se ci rappresenta, non ho sentito ragionare), io vorrei invitare a riflettere su questo: se al posto di quel “maschili” pensassimo e dicessimo più spesso “dei più ricchi”? Se al posto di “cisgender” dicessimo “laureati (nelle stesse 10 università)”? Se al posto di “eterosessuali” dicessimo “provenienti dalle aree del Paese più dotate di servizi”? Se quel gruppo di potere lo guardassimo sotto altre lenti, altrettanto reali e forse anche più oggettive (perché, per dirne una, cosa significa “bianco” non è facile definirlo)?».

Le capisco, le cancellettiste irritate: io ci ho messo 190 pagine d’un certo libro a dirlo, e la Testa se la cava con dieci righe. Oltretutto dieci righe le leggono più facilmente di 190 pagine, e infatti sono giorni che fanno post in cui pizzinano Martina, e status su quanto sia stupido sostenere che «it’s the economy, stupid». Loro non la sintetizzano così, perché hanno iniziato a leggere le cose americane quando l’internet ha iniziato a dargliele gratis: i Beatles non li conoscono, neanche James Carville conoscono – solo i meme, conoscono.

Ieri, finalmente, ho smesso di sentirmi esclusa. Mi hanno notificato che ero la variazione su un meme, e questo mi ha fatto sentire finalmente parte dello spirito del tempo.

Il meme originale dice che, secondo i media, i problemi delle persone transgender sono: JK Rowling (l’autrice di Harry Potter che osò dire che le persone che mestruano si chiamano «donne»); i pronomi; i bagni (pubblici). E che invece i veri problemi delle persone transgender sono, tra gli altri: la violenza; le discriminazioni; la rettifica dei documenti anagrafici; le operazioni chirurgiche; il deadnaming (cioè quelli che ti chiamano col nome di prima della transizione).

Se l’avessi visto così, avrei obiettato che equiparare la violenza al nome sbagliato è una fallacia figlia di quella scemenza collettiva che è il dogma «non esistono gerarchie dei traumi». Altroché se esistono: abbiamo un codice penale proprio perché esistono. Abbiamo un cervello, oltre al codice penale, proprio per distinguere tra chi ti prende a pernacchie e chi a coltellate.

Il meme mi è però arrivato con una variazione: invece di «secondo i media», «secondo la Soncini». Quindi mi permetto di correggere il primo schema, con la pretesa di sapere meglio di loro quale sia il solo problema secondo me.

Il problema è quel che dice la tizia che per Time ha intervistato Elliot Page, che di recente ha cambiato sesso (identità di genere, secondo la Zan) dopo essere stata per 33 anni Ellen Page (questo è quel che i postmoderni chiamano «deadnaming», e noi novecenteschi chiamiamo «fare chiarezza per i lettori»).

Prima di riferirvi la sua frase, lasciate che chiarisca un tecnicismo. Se io avessi le tette piccole e volessi ingrossarle, dovrei pagarmi l’intervento: sarebbe una questione di vanità. Se il tizio con la barba che ho incrociato poco fa sulle scale si percepisse donna e volesse impiantarsi delle tette, gliele pagherebbe la sanità pubblica, giacché per lui avere le tette sarebbe una questione di equilibrio psichico. Questo perché, se il tizio con la barba si percepisce donna, ha una malattia illustrata dai manuali di diagnostica psichiatrica: si chiama «disforia di genere».

Quando la tizia di Time ci dice in toni trionfalistici che cinquant’anni fa solo lo 0,2 per cento dei giovani americani era trans, mentre oggi è l’1,8, lo ritiene un trionfo perché è completamente cretina e gioisce d’un aumento dei disturbi psichici?

O, piuttosto, perché quello che i sacerdoti del postmoderno hanno fatto, nella loro ignoranza e confusione, è stato trasformare la malattia mentale in «ehi, figata»? Quando trattate la transizione di genere come un progresso e qualcosa che più ce n’è meglio è, è perché siete dalla parte dei giusti, o è perché non sapete di cosa parlate?