La scena dell’Hotel Raphaël e delle monetine contro Bettino Craxi, l’uomo politico più influente degli anni ottanta, è considerata tipicamente il simbolo di un’epoca, forse il più noto simulacro di un periodo storico: la conoscono anche i più giovani, pur se magari non sanno spiegarne il contesto, come si dice; non sanno spiegare, cioè, il nesso tra un prima e un dopo, come se fosse il trailer di un film che non hanno visto.
Da una parte, quindi, non si trova testo o documentario sul triennio 1992-1994 che non abbia epicentro in quell’immagine del 30 aprile 1993, spesso accompagnata da quella del cappio che fu sventolato in Parlamento due settimane prima; dall’altra si faticherà a credere, oggi, che la notizia dell’assedio dell’Hotel Raphaël, sulle prime pagine dei giornali del giorno successivo, non fu pubblicata.
Non lo fu, e tantomeno nei giorni seguenti. L’unico ad averlo notato, venticinque anni dopo, è stato lo storico Giovanni Orsina in un articolo sulla «Stampa»: «I quotidiani quasi non ne parlarono. Eppure quell’evento è diventato il simbolo di Tangentopoli e Mani Pulite, e del collasso rovinoso della Repubblica dei partiti». Quell’assenza fu uno solo dei modi in cui la stampa fu corresponsabile.
Sui quotidiani del giorno dopo, peraltro, non fu pubblicata neanche una foto dell’assedio, della stretta attorno alle auto: l’unica, poi vista e rivista negli anni a venire, fu scattata da un freelancer che si era arrampicato sulla pedana del ristorante Santa Lucia, a fianco dell’ingresso dell’hotel.
Sui giornali l’immagine non apparve, e tantomeno apparve propriamente la «notizia» dell’assedio: in pochi articoli furono solo mimetizzati degli accenni, genere «la polizia presidia l’Hotel Raphaël», «monetine contro l’ex segretario Psi assediato nel suo albergo», «sotto le finestre di Craxi la rabbia della gente onesta».
Sui giornali c’era, semmai, un’anticipazione di quella che venticinque anni dopo avrebbero chiamato «rivolta del Web» o del «popolo di Internet», ossia la trascrizione di centinaia di telefonate o telegrammi giunti nelle redazioni e pubblicati senza filtri.
Dobbiamo quasi tutto alle immagini dei telegiornali: senza di quelle forse il caso non sarebbe esistito. Furono trasmesse a loro volta senza filtri: non erano come quelle che si vedevano normalmente nei notiziari, andarono in onda così com’erano, soprattutto su Raitre, e cioè senza editing, con le inquadrature sbollate e i livelli audio sfondati, pronte per una YouTube che non esisteva ancora. Un’altra anticipazione, un altro sgangherato salto in avanti rispetto a uno stile «social» ancora lontano.
Non fu soltanto una giornata particolare: fu la dorsale tra un prima e un dopo, e ciò che accadde resta irrimediabile. Non era mai successo – notò Giuliano Ferrara – che la residenza privata di un personaggio pubblico fosse cinta d’assedio per un comportamento istituzionale e comunque democratico, cioè una decisione votata dal Parlamento.
Quando c’era la guerra del Vietnam, i contestatori gridavano sotto il fortilizio dell’ambasciata, non sotto la casa privata dell’ambasciatore americano. Persino le Brigate rosse, che ammazzavano avvocati e magistrati, si premuravano di far sapere che le pallottole non erano rivolte agli uomini, ma alle toghe che indossavano. Quando il segretario comunista Enrico Berlinguer, ospite del congresso socialista del 1984, fu sonoramente fischiato, lo stesso Craxi si affrettò a spiegare che i fischi non erano diretti alla persona, «ma a una politica profondamente sbagliata».
Il linciaggio di un uomo politico come Bettino Craxi, in un paese come l’Italia, suonò invece da autoassoluzione di massa per milioni di mandanti che per generazioni avevano potuto votare, accettare, legittimare, e che ora volevano bruciare anche i loro vizi nazionali, le elargizioni a pioggia, il debito morale e pubblico – poi attribuito a Craxi – e insomma, ciò che l’Italietta compromissoria aveva accumulato nei decenni. «Vogliono il rogo, non un processo», dirà Craxi.
Chi era senza peccato scagliò la prima monetina di infinite. Qualcosa cambiò per sempre.
Ciò che venne dopo non fu più politica: furono le forme della sua assenza. La tecnocrazia. L’illusione della società civile. La pan-penalizzazione integrale del vivere quotidiano. Il neopopulismo. Persino una medicalizzazione coattiva della cittadinanza, con un netto restringimento delle libertà costituzionali: qualcosa che è ben lungi dal vedere la fine – mentre scriviamo – ma che ha messo ancor più fuori gioco, se possibile, i partiti intesi come rappresentanti della fisiologia democratica.
Le piazze, in futuro, non avrebbero più avuto neppure le monetine da tirare, e non solo per un indubbio impoverimento del paese, ma perché le piazze sarebbero diventate virtuali, e l’odio e l’invidia sociale avrebbero nascosto la mano nella solitudine domestica: la famosa folla solitaria. Doveva comunque succedere, probabilmente: il mondo è cambiato dappertutto. Ma solo da noi è cambiato in questo modo, con una cosiddetta «rivoluzione» a fare da abbrivio.
Di tutte le profezie attribuite a Bettino Craxi, forse la più trascurata è contenuta proprio nel suo discorso alla Camera del 29 aprile 1993, giorno precedente alla scena del Raphaël:
Una rivoluzione: così sono stati definiti e così molti concepiscono gli avvenimenti di casa nostra. Può darsi. Però allora è bene essere consapevoli che una rivoluzione è di per sé sempre una grande incognita e una grande avventura. Ma, soprattutto, una rivoluzione senza un ceto organico di rivoluzionari è destinata solo a distruggere e a preparare un fallimento certo. C’è stata violenza nell’uso del potere giudiziario, nell’uso dei sempre più potenti mezzi di comunicazione. C’è stato un eccesso di violenza nella polemica politica, nella critica, nel linguaggio e nei comportamenti. E la violenza non può far altro che generare violenza nei giudizi, nei sentimenti, nelle passioni, negli animi.
Bene o male è l’Italia di oggi, che da allora ha fatto piazza pulita di partiti, istituzioni, simboli, reputazioni, rispetto dei ruoli, soprattutto ha smembrato quel poco di tessuto civico che la nostra giovane democrazia aveva faticosamente ordito, e che il detersivo rivoluzionario ci ha restituito bianco e pulito come un cencio inservibile. Siamo tornati a un misterioso anno zero. Magari, chissà, ci attende un futuro luminoso a cui stiamo opponendo una visione lamentosa e in classico ritardo culturale; nell’attesa, però, abbiamo la certezza che il nostro è l’unico paese europeo che non ha (più) un partito liberale, socialista, verde o democratico-cristiano.
Il debito pubblico è più che triplicato, il ceto medio si è impoverito e proletarizzato, la crescita economica è all’ultimo posto d’Europa, le aziende più importanti sono espatriate o sono state vendute, quelle rimaste sono state maltrattate da una classe dirigente a dir poco neofita; e questo è accaduto assai prima di qualsiasi pandemia. Manca una «politica», termine ormai privo di senso, mancano i politici mentre «politica» e «politici» continuano a essere espressioni dispregiative. Spesso si incolpa un recente passato per giustificare il presente. Spesso, per esempio, si incolpa Craxi.
Un vecchio modo di governare le nazioni, di cui Craxi era il perno, sono state spazzate via: non è accaduto in un giorno solo, ma se dovessimo sceglierne uno non avremmo dubbi. È il giorno in cui morì la politica. Dopodiché, sul quando e sul dove ebbe inizio il piano inclinato dal quale cominciammo a rotolare, si possono avere idee diverse: noi individuiamo senza dubbio la scena del Raphaël, che fu un linciaggio «simbolico» solo perché non riuscì. Non manca, in questo libro, la testimonianza di chi si dolse di non essere arrivato fino in fondo: «Dovevamo sbranare Craxi, avremmo dovuto farlo fuori a pezzi, gettare le sue… budella sulla porta del Raphaël e trascinarle fino al Parlamento». Parole pronunciate decenni dopo, come si vedrà.
Le trasformazioni che dagli anni novanta hanno cambiato l’Italia e il mondo ci sarebbero state comunque: erano inevitabili. In Italia hanno coinciso con una brutale rivoluzione giudiziaria.
Questo forse era evitabile. Quindi ora si può fare sociologia da due soldi, si può dire che quelle monetine siano state il battesimo dell’antipolitica, l’incipit di un populismo anticasta che si consacrerà nei Vaffa-Day di quindici anni dopo, passando dalla piazza fisica (il Raphaël) alla piazza mediatica (la tv urlata e quella berlusconiana) sino alla piazza virtuale del famigerato «popolo di Internet», perfezionamento del «popolo dei fax». Ma quella fu, in primo luogo, una violenza. Si potrà scegliere l’aggettivo che ne segue: ma il termine resta «violenza», ed è una violenza che va raccontata. Ora dopo ora. Perché di quei giorni resta l’accaduto, restano le parole che furono dette, restano i fatti che non conoscevamo, o che avevamo dimenticato, rimosso.
In un suo libro, “Presunto colpevole”, l’ex corrispondente da Londra della «Stampa», Marcello Sorgi, ha raccontato che l’allora premier britannico Tony Blair, a casa di amici, gli chiese di spiegargli perché non si era riusciti a costruire un corridoio umanitario per Craxi, ossia a farlo rientrare in Italia per consentirgli una fine degna. Per Blair risultava incomprensibile ciò che era accaduto tra Roma, Milano e Hammamet tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000, quando Craxi morì anche e soprattutto per mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria.
Il programma socialista del 1982 e le riforme introdotte dai governi Craxi, per i laburisti inglesi del 1994, erano diventate un riferimento tanto che si proponevano obiettivi simili; mentre all’estero provavano a imitare Craxi, cioè, in Italia lo lasciavano morire in quel modo. A Blair, Marcello Sorgi rispose che i governi italiani avevano trattato su tutto e con tutti: con il terrorismo interno e internazionale per salvare ostaggi, con i servizi segreti del mondo arabo per limitare i rischi di attentati, con i pentiti di mafia per combattere la criminalità, ma soltanto in due casi non era stato possibile trattare: con le Brigate rosse per Aldo Moro e con la magistratura italiana per Bettino Craxi, morto ad Hammamet il 19 gennaio 2000.
La morte di Craxi, in realtà, ebbe inizio il 29 aprile 1993, verso le sette di sera. Qui si racconta questo.
da “30 aprile 1993 – Bettino Craxi. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica”, di Filippo Facci, Marsilio, 2021, pagine 224, euro 18