Contrariamente a molte previsioni, comprese quelle di chi scrive, i sondaggi non stanno rilevando un effetto Letta. Vatti a fidare, certo – e neanche Nando Pagnoncelli potrà negare l’attivismo del neosegretario, la sua abilità nel modificare i gruppi dirigenti e una certa rivitalizzazione dei circoli del Partito democratico – ma non si può non notare che il partito di Letta (Swg di ieri) resta un po’ sopra il 18 per cento, più o meno lo stesso dato della gestione Zingaretti, che è tutto dire. Con – cosa ancora più inspiegabile – il Movimento Cinque stelle al 17,5 per cento.
Un dato quest’ultimo che ha del clamoroso, tenuto conto che stiamo parlando di un partito moribondo mentre quello nuovo, contiano, stenta a nascere. Cosa suggerisce la combinazione di questi due dati che dicono che il Pd non cresce a causa della stabilità del M5s?
Intanto induce a pensare che la cosa veramente strana per un politico di razza come lui è che Enrico Letta non si renda conto che il principale bacino di voti ove pescare consensi è proprio il Movimento Cinque stelle, il grande stagno a-politico nel quale defluirono nel tempo tanti voti dem, voti per definizione fluttuanti, contendibili, acquisibili: ed è lì, oltre che naturalmente nel mare dell’astensione, che il Pd deve andare a caccia di voti se vuole tornare a essere un partito del 25 per cento e più, condizione imprescindibile per candidarsi a governare l’Italia alla testa di una coalizione riformista.
Michele Serra non ha tutti i torti a segnalare che il M5s raccoglie oggi «un pezzo notevole dell’elettorato di sinistra» ma invece di essere una legittimazione del contismo questa affermazione è la prova del nove che quei consensi sono esattamente quelli che mancano al Pd perché sia un partito vincente.
Ora, la strada peggiore per riconquistare quei consensi è blandire il Movimento, addirittura beatificandone il leader e passando la spugna su tutto ciò di male il grillismo ha fatto alla qualità della politica italiana, mettendo alla berlina valori come l’europeismo e il Parlamento e sull’altare la pratica antidemocratica e falsa dell’uno-vale-uno e del sistema Rousseau-Casaleggio ed elevando al rango di ministri e sottosegretari personaggi improbabili e digiuni di sapere e talvolta di buona educazione.
Invece di contestare un’esperienza totalmente fallimentare rispetto alle sue stesse promesse di rigenerazione della politica, piuttosto che acuire le sue contraddizioni e lavorare in questo gorgo, il Pd di Zingaretti e di Bettini (soprattutto di Goffredo Bettini) ha preferito considerare il grillismo come costola della sinistra, come in ultima analisi «compagni che sbagliano» ma comunque “roba nostra”, con il bel risultato di lasciargli tutti i voti che il M5s aveva sottratto loro molti spesso con l’inganno di una diversità da tre soldi come quella di Mackie Messer.
Così i dem rischiano di ripetere l’errore fatto a suo tempo dai Ds con la Lega di Umberto Bossi, quando, credendo di poterla addomesticare anche sulla faccenda del federalismo, di fatto la Quercia finì per sparire dal Nord. E anche Letta, dopo un primo afflato quasi da Lingotto, si è piegato a questo modo di ragionare, dando per scontata l’alleanza politica con un enigmatico – il meglio che si possa dire – Giuseppe Conte: che invece in questa fase è chiaramente il principale competitor del Pd perché è lui, lo sconfitto della legislatura, ad avere tuttora la chiave del forziere dei voti dem.
Se non andando alla lotta con il Movimento, come pensano al Nazareno di risalire la china? Lotta aperta culturale e politica: in quegli ambienti popolari cui la sinistra (tantomeno la sinistra bersaniana) non parla da anni e che è finita in braccio a un Movimento che prometteva trasparenza, legalità e giustizia e ben poco ha realizzato; in quegli ambienti intellettuali e di professionisti che chiedono quelle riforme strutturali che certo Di Maio non realizzerà mai; parlando a milioni di giovani che si rendono conto che il vaffa grillesco in fin dei conti era rivolto proprio al loro futuro. Ma tutto questo implicherebbe una battaglia a viso aperto per riconquistare uno per uno i voti persi, andando nei luoghi dove si sono persi: altro che alleanza strategica, il M5s ha prosperato su una difficoltà storica della sinistra.
Guardiamo Roma. Un giornalista attento come Fabio Martini sulla Stampa di ieri notava come Virginia Raggi, sorprendentemente, stia rimontando una china che l’aveva vista rotolare senza speranza nell’inferno dell’impopolarità. Non sappiamo se sia realmente così. La delusione per una sindaca che ha distrutto intere parti della Capitale e non ha risolto uno dei suoi mille problemi è tanta, anche presso chi la votò cinque anni fa in segno di protesta contro quelli di prima.
Ebbene, su Roma il Pd continua a tergiversare. Non comprende che innanzi tutto bisognerebbe battere la Raggi al primo turno per poi vedersela contro la destra al ballottaggio, e che per questi obiettivo servirebbe un’aspra denuncia del raggismo mentre invece l’impressione negli ultimi anni è stata piuttosto di un’opposizione blanda, burocratica, non popolare: per la semplice ragione che andava tenuto buono il rapporto con Luigi Di Maio e Conte.
L’effetto di tutto questo è che in cinque anni i dem a Roma non hanno saputo creare un nuovo leader e infatti oggi non ha un nome forte: se lo avesse sarebbe già in campo da mesi. E non ha una strategia chiara, anzi ce l’ha: ma sbagliata. E il Movimento lucra su queste disgrazie, succhiando il sangue del Pd e coprendo le sue piaghe.