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I 20 anni di Fondazione AdeccoDiversità e inclusione: così le aziende si aprono all’innovazione e al cambiamento

«La diversità rappresenta una condizione normale della natura. Accettare le differenze vuol dire favorire l’innovazione guardando al futuro», dice Severino Salvemini, presidente della Fondazione Adecco per le Pari opportunità, in occasione della Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo

(Pixabay)

«Aprirsi alla diversità oggi conviene alle aziende perché essa ha in sé i semi dell’innovazione e del cambiamento: è un elemento fondamentale per stare al passo con i tempi». A spiegarlo è Severino Salvemini, presidente della Fondazione Adecco per le Pari opportunità, in occasione della Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo, che si celebra ogni anno il 21 maggio.

Quest’anno la Fondazione Adecco celebra vent’anni dalla nascita. Sin dal 2001, l’obiettivo dell’ente è quello di favorire l’inclusione attraverso il lavoro e la valorizzazione dei talenti contro ogni forma di discriminazione ed esclusione, nella convinzione che ognuno rappresenti una risorsa preziosa e possa dare il suo contributo economico e sociale.

«In questi vent’anni l’approccio delle aziende è cambiato radicalmente», racconta Francesco Reale, segretario generale della Fondazione. «E anche le persone a rischio esclusione sociale di cui ci occupiamo sono mutate di pari passo con i cambiamenti sociali».

Nel 2001 la missione era quella di assicurare alle persone con disabilità l’accesso al mercato del lavoro, sensibilizzando le aziende su quanto fosse importante includere queste persone per arricchire i team. Nel corso degli anni, poi, la Fondazione si è occupata di rifugiati, giovani, donne. E con la crisi legata alla pandemia, stanno emergendo le nuove fragilità di chi rischia di restare ai margini della società.

Ma a essere mutato è soprattutto l’atteggiamento delle aziende e dell’economia intera verso l’inclusione sociale e la diversità. «Sono vent’anni, ma sembrano cento se pensiamo alle trasformazioni a cui abbiamo assistito», racconta Salvemini. «Veniamo da un secolo dove l’organizzazione lavorativa, sull’onda del taylorismo, ha privilegiato l’omogeneità e il conformismo. La diversità nelle aziende e nelle istituzioni è sempre stata un po’ osteggiata e anche sanzionata, perché era più facile gestire individui simili che avere persone differenti dal punto di vista del genere, etnia, background culturale, origine geografica, religione».

Poi, a un certo punto, ci si è resi conto che le organizzazioni migliori, quelle che più riuscivano a reagire e ad adattarsi al cambiamento, «erano proprio quelle che invece avevano al loro interno condizioni di rottura delle norme di comportamento», dice Salvemini. «D’altra parte la diversità rappresenta una condizione normale della natura. Accettare le differenze vuol dire favorire l’innovazione guardando al futuro».

Nelle aziende e nelle istituzioni, in primis, sono arrivate le nuove generazioni di giovani. «I 20-30enni non sono più quelli che avevano come unico sogno quello di andare a lavorare nella banca d’affari», racconta Salvemini. «Adesso i neolaureati guardano alle onlus e intraprendono esperienze di imprenditoria locale molto più sociali e molto meno speculative di prima. I giovani hanno premuto dal basso con nuovi valori».

L’apertura alla diversità è diventata anche una questione di employer branding per attirare i talenti, ma anche una strategia di business per attrarre i giovani consumatori. Perché, come spiega Reale, «le nuove generazioni sono molto attente a quello che l’azienda fa in concreto per essere realmente inclusiva e sostenibile. Prima ci si poteva limitare a fare grandi proclami in termini di marketing e diffondere messaggi sui valori dell’azienda. Oggi le nuove generazioni danno molta importanza a quello che le aziende fanno concretamente e non solo a quello che comunicano».

E infatti ora, continua il segretario della Fondazione Adecco, «sono le aziende che cercano l’apertura alla diversità: è proprio cambiato il paradigma. Chiedono di avere un ruolo, perché i consumatori sono sempre più attenti alla sostenibilità delle scelte di consumo, ma anche perché vuol dire attrarre investimenti».

Da quando i fattori Esg (Environmental, Social, Governance) costituiscono una variabile centrale per orientare gli investimenti, l’apertura alla diversità è diventata anche una strategia di business. «Il mondo del mercato del capitale ha pian piano interiorizzato fattori che non erano presenti nel passato», dice Salvemini. «Adesso si parla dei fattori Esg, quando fino a 20 anni fa il motto era la massimizzazione del valore degli azionisti. Oggi invece stiamo parlando di un capitalismo non più degli azionisti ma dei partecipanti, e quindi anche dei lavoratori e dei fornitori».

Nel 2020, poi, nell’anno della pandemia, questa attenzione alla diversità ha subìto un nuovo slancio. «L’emergenza sanitaria ha aperto gli occhi anche verso nuove povertà ed emergenze», dice Salvemini. «Sicuramente i prossimi dieci anni saranno contraddistinti da una sostenibilità che sarà più concreta rispetto a prima». E il segnale che non si tratti solo di una moda legata a motivi di immagine è che «le imprese più avanzate hanno cominciato a inserire nuove mansioni negli organigrammi, per cui troviamo dirigenti che si occupano specificamente del tema della diversità e della sostenibilità. Vuol dire che non è solo una sovrastruttura per riverniciare in modo più piacevole l’impresa, ma è qualcosa di concreto».

E qui si inserisce il lavoro della Fondazione Adecco per le Pari opportunità, che da 20 anni fa da ponte tra il pubblico e il privato. Lavorando da un lato con il terzo settore e dall’altro con le aziende più attente ai temi della diversity. «L’obiettivo non è trovare un lavoro per tutti, ma aiutare le persone a mettersi in una condizione di impiegabilità maggiore, sensibilizzando nello stesso tempo le aziende a dialogare con soggetti che potrebbero restare ai margini», spiega il presidente.

Nella convinzione – aggiunge Reale – che «il lavoro è il migliore strumento di inclusione sociale: restituisce alle persone dignità e autonomia economica». Nel caso delle donne vittime di violenza, ad esempio, «senza autonomia economica è difficile immaginare un futuro per loro». Lo stesso vale per i rifugiati e i richiedenti asilo. «Aiutiamo gli attori dell’accoglienza a dialogare con le aziende e ad accompagnare queste persone verso il mondo del lavoro», spiega Reale. «Non significa tanto trovare un impiego, ma renderli autonomi nella ricerca, rafforzando competenze e talenti».

In occasione del ventennale, la Fondazione Adecco ha scelto di non celebrare una sola data, ma di festeggiare tutto l’anno, organizzando il ciclo di incontri “Da vent’anni, FA…”. Ogni mese, fino a dicembre, è previsto un appuntamento di approfondimento sulla diversity & inclusion, insieme a un membro del cda e a una delle aziende coinvolte nei progetti.

«Le testimonianze che raccontiamo dicono che “si può fare” – spiega Reale – che si possono accogliere le diversità innescando una contaminazione virtuosa». E oltre al coinvolgimento delle persone fragili nei contesti di lavoro, in ogni storia si registra un impatto positivo anche sul resto dei dipendenti in azienda. «Queste iniziative aiutano i lavoratori a sentirsi molto più identificati e coinvolti nell’impresa», conclude Salvemini. «Trovare elementi valoriali ed emozionali, che riescano a unire le persone e accrescere il loro senso di appartenenza, è un aspetto importante, soprattutto in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo. Quando le aziende accettano e includono nella propria organizzazione una persona diversa, si rendono conto poi che questa persona diventa estremamente motivata e anche trainante per il resto del gruppo».

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