La legge di ChappellePer resistere al mondo dei cancelletti il trucco è non chiedere scusa

È un comandamento che l’attrice Michela Giraud, dopo aver fatto una battuta sul non binarismo di Demi Lovato (ed essere stata sommersa dalle critiche), non ha rispettato. Mai contrirsi, mai pentirsi. Altrimenti continueranno a insultarti

Matt Sayles/Invision/AP, File

Personaggi e interpreti dello scandalo di ieri, una giornata che sembrava già assegnata al problema di genere d’un festival di musica a Pistoia (i suonatori sono tutti maschi, santo cielo) e alle dimissioni di Roberto Angelini da chitarrista di Propaganda causa caporalato al sushi bar o giù di lì. E invece è arrivata lei. E dico «lei» perché parlo della non protagonista.

Protagonista assoluta di questo ordinario pomeriggio di delirio sull’internet è Demi Lovato. Già enfant prodige che incide il suo primo album a sedici anni, già venditrice di decine di milioni di dischi (in un’era in cui i dischi non si vendono praticamente più), ancora rilevante per le vostre figlie (che vi hanno costretto a impararne il nome, sennò sareste qui che dite: e mo chi è questa?).

L’altro giorno Demi Lovato annuncia al mondo non che dà il suo nome a un profumo, non che incide una canzone i cui proventi sfameranno i bambini del terzo mondo, ma ciò che di questi tempi unisce queste due antiche attività da persona famosa, una trovata sia glamour che impegnata, un espediente che sia gratuito ma venga percepito come coraggioso: dice Demi che lei non è binaria.

Che è: una roba per cui bocciarti in scienze alle scuole medie (certo che sei binaria, sciocchina: sei una mammifera; siamo una società tollerante e puoi farti chiamare come ti pare e sentirti baffuta un minuto e tettuta l’altro, ma sempre una mammifera resti).

Ma è anche una roba che ti rende immediatamente vacca sacra, intoccabile, incriticabile, e soprattutto inscherzabile: hai detto che non sei she ma they, e riderne è una bestemmia. Se osi fare una battuta su queste questioni sei come minimo Pillon (chiunque sia il Pillon d’America). L’ultimo che ricordi a fare una (ottima) battuta sulle questioni di genere è stato Dave Chappelle, che chiamò i LGBTQ (e tutto quel che segue) «quelli delle consonanti». (Adesso arrivano quelli che si sdegnano perché la battuta m’è parsa ottima: mentre si sfogano io vado avanti. Intanto voi ricordatevi di Chappelle: poi ci tornerà utile).

Coprotagonista del pomeriggio d’un giorno da cancelletti è Michela Giraud. Portatrice di banale pronome femminile e sessualità tradizionale; testimonial di taglie forti che è sempre più magra ogni volta che la vedo su Instagram (come minimo le toglieranno l’ingaggio per sopravvenuta sporgenza degli zigomi); comica di recente successo (ha un programma suo non brutto su Tv8, è diventata più nota di prima di recente, con l’orrendo Lol su Prime); attrice in un film in uscita su tematiche gay.

Ieri pomeriggio, Giraud twitta questa battuta, che è il livello di davechappellismo che possiamo permetterci in un paese che ha formato il proprio senso dell’umore sulle Risate a denti stretti della Settimana Enigmistica: «Demi Lovato vuole le sia dato del “loro” come il mago Otelma». Le ragazzine coi pronomi in bio e le bandiere arcobaleno si agitano moltissimo. Alle ragazzine arriviamo dopo, prima la sceneggiatura ha bisogno d’un flashback.

È il 2013, e Justine Sacco è una tizia che non avete mai sentito nominare che sta partendo per le vacanze di Natale. Salendo in aereo twitta che va in Africa, spera di non prendere l’Aids, «ah no: sono bianca». Qualunque normodotato d’un secolo meno suscettibile avrebbe capito che era una battuta sui razzisti. Questo secolo decide invece sia una battuta razzista, e anche se non conoscete la storia già immaginate come si evolva: scandalo, cancelletti, licenziamento.

Justine Sacco è il paziente zero della cancel culture (quindi non esiste, ce l’ha detto l’ultimo intellettuale).

Il dettaglio che ci interessa qui, però, il dettaglio utile all’esegesi del caso Lovato/Giraud, è che a far partire lo sputtanamento della Sacco era stato un giornalista di Gawker (sito di pettegolezzi nel frattempo chiuso giacché ridotto in bancarotta da una causa per diffamazione: ci sono paesi in cui le cifre che devi pagare se sputtani qualcuno sono commisurate al danno).

Poiché quel che i carnefici di quest’epoca non capiscono mai per tempo è che i ruoli sono intercambiabili, passa qualche mese, e il giornalista di Gawker viene a sua volta sputtanato per una battutaccia su Twitter. Lascia passare un po’ di tempo e va a intervistare Justine Sacco, che dalla sua esperienza di paziente zero qualcosa ha imparato.

Ricopio il passaggio di sette anni fa, in cui il giornalista ricostruiva i giorni caldi del proprio sputtanamento: «Sacco mi messaggiò per chiedermi come andasse, e mi offrì un consiglio: non fare niente. Non twittare. Non scusarti. Non dire mai niente. Sii un inerte grumo di molecole e lascia che il mondo si faccia a pezzi attorno a te». Fingersi morti in attesa che passi lo scandalo del giorno, quello che oggi sembra la fine del mondo e dopodomani nessuno ricorderà, è il miglior consiglio inascoltato del secolo. Non riescono a seguirlo quelli che sono famosi da una vita, figurarsi se poteva seguirlo Michela Giraud, che ha pure un film a tema in uscita.

Si è scusata, ha cancellato il tweet, ha detto che aveva tanto da imparare e avrebbe studiato i temi cari al popolo delle consonanti (no, non l’ha chiamato così).

Non è bastato. Scusate se cito i miei stessi testi sacri, ma: niente basta mai. Le hanno detto che si scusava per interesse, che faceva schifo, che era una bulla e che doveva vergognarsi.

Va sempre così. Più ti scusi, più ti urlano. Più ti contrisci, più infieriscono. I giustizieri dell’internet sono come quei mariti stronzi che più piangi più godono a corcarti di mazzate. Non piangere, sull’internet, dovrebbe essere più facile – basta non guardare le notifiche, serve meno agilità che per scansare le mazzate – eppure non ci riesce mai nessuno. Per dire: chissà se io riuscirò a non filarmi quelli che, leggendo qui, mi accuseranno di sminuire la violenza sulle donne usandola come paragone buffo. Il vantaggio è che io al massimo li spernacchierò.

Ho perfezionato l’arte del non scusarmi mai, negli anni. Ho perfezionato l’arte del «se ti offendi, è un problema tuo». Nei suscettibili, l’altrui rifiuto a stare lì a implorare pietà e promettere che cercherai di migliorarti mentre ti tirano sassate causa quel genere di sturbo del quale a Bologna si dice «gli si chiude la vena» (credo che anche «sturbo» sia locale, oggi lezioni di lingua straniera). Ma più si agitano più io mi rilasso. Più si agitano più so che la cosa si consumerà in fretta: la fine del mondo non è mai davvero la fine.

Certo, è un privilegio. Chappelle, per dire, non ha nessun produttore di film sulle consonanti che gli chieda di essere conciliante col suo potenziale pubblico. Pubblico per il quale Netflix tiene tutte le Nanette che non fanno mai ridere (ma fanno presentabilità sociale) disponibili sulla piattaforma.

Dave può dire quel che vuole e non scusarsi mai perché ha potere contrattuale: gli viene dal fatto che le sue battute stronze sono più guardate dagli abbonati di quelle che non turbano cancelletti e consonanti. Bisogna arrivare fin lì, certo. La domanda è: è quando arrivi a quel tipo di forza che puoi smettere di scusarti, o è non scusandoti che ottieni quel tipo di forza?

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