Non bisognava essere Nostradamus né associati a favolosi complotti internazionali volti a defenestrare il leader fortissimo di tutti i progressisti Giuseppe Conte, e poi a restituirlo agli studi universitari e agli scontrini di Rousseau, per prevedere con esattezza quale sarebbe stato il contrattacco di chi ha dovuto farsi piacere l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Sto parlando del sogno di riscossa di Conte e dei suoi ideologi, del Pd arresosi all’alleanza strategica con l’avvocato del popolo, ma anche di Matteo Salvini e di quella parte di destra che, imbambolata dal profumo della vittoria elettorale, ancora una volta si è fatta prendere per il naso da Matteo Renzi e per questo è finita in un governo europeista non solo col Pd ma anche con la sinistra neo, ex, post comunista.
Il contrattacco degli sconfitti è l’elezione del presidente della Repubblica nel 2022, un anno prima della scadenza naturale della legislatura in corso. Oggi i Cinquestelle, il centrosinistra e il centrodestra abbracciano Draghi fingendo passione (ma a volte nemmeno quella), ma in realtà pensano a come liberarsene al più presto e la formula individuata è quella classica del promoveatur ut amoveatur, ovvero di promuoverlo al Quirinale affinché sia rimosso da Palazzo Chigi, nella speranza che la sua elezione a Presidente della Repubblica porti a uno scioglimento anticipato delle Camere (Salvini) o a un altro governo di breve durata ma più politico, a maggioranza europea Ursula, o più coerente con l’alleanza strategica (Cinquestelle, Pd, Leu).
Nel weekend i piani del contrattacco sono stati esplicitati da Matteo Salvini e da Renato Brunetta sul Foglio: Draghi non può fare le riforme, vada al Quirinale, ha detto Salvini; Draghi vada al Quirinale per dare continuità al Recovery, ha detto Brunetta. Conte non vede l’ora, perché la sola presenza politica di Draghi gli occupa il posto centrale che si illude di poter presidiare. Il Pd si limita a spingere Salvini fuori dalla maggioranza e a far trapelare sottotraccia che Draghi andrà al Quirinale, mostrando poca lungimiranza strategica e buona propensione a consegnarsi al bipopulismo perfetto.
Dopo il nostro dibattito sull’area liberaldemocratica, il 3 aprile, abbiamo proposto una contromossa: ribadire che il governo Draghi è un governo di legislatura, non abboccare all’offerta di eleggere l’ex banchiere centrale al Quirinale e andare al voto del 2023 indicando Draghi come prossimo presidente del Consiglio.
«Scaduta l’attuale legislatura, non importa con quale legge elettorale si andrà a votare né chi sarà il capo politico della coalizione, il Pd e l’area liberaldemocratica, più chiunque altro ci vorrà stare, dovranno indicare come Presidente del Consiglio meritevole della fiducia parlamentare il professor Mario Draghi, possibilmente con una maggioranza coerente con il risultato elettorale, ma anche senza coerenza come del resto è già capitato con tutti e sei i governi dell’attuale e della precedente legislatura. E dovranno cominciare a indicarlo politicamente prima del voto, specificando che si tratta di punto fondativo della proposta di governo, e poi formalmente alle consultazioni con il Capo dello Stato».
Il governo ha ancora molto da fare per organizzare la ripartenza e moltissimo ci sarà da fare nella prossima legislatura affinché l’occasione non venga sprecata. Non si può lasciare la tolda di comando a Conte o a Salvini. Draghi, ancora una volta, è la soluzione, esattamente come tre mesi fa lo è stato per liberarci di Conte e programmare una campagna di vaccinazione degna di questo nome e la stesura di un piano di ripresa accettabile da Bruxelles.
La partita è sempre la stessa: da un parte ci sono i populisti con Conte che vuole tornare e Salvini e Meloni che aspirano a pieni poteri prossimi venturi. Dall’altra piccoli partiti personali incapaci di costruire un’alternativa maggioritaria, ma forti di migliori condizioni internazionali e di maggiore consapevolezza dell’inadeguatezza sovranista e populista. In mezzo c’è il Pd, un partito che anziché organizzare l’area costituzionale e repubblicana come ha fatto Joe Biden perde ancora tempo a flirtare con i populisti nell’illusione di poterli controllare, ricevendo numerosi due di picche e finendo per esserne gregario o complice. Se in autunno Roberto Gualtieri diventasse sindaco di Roma, l’attuale strategia del Pd avrebbe qualche ragione in più, pur in mancanza di una visione. Ma sarebbe il caso che il Pd iniziasse a valutare fin da adesso l’ipotesi di uno scenario patatrac, in modo da non farsi trovare impreparato quando finalmente capirà che il bipopulismo italiano si combatte facendo esattamente il contrario di ciò che predicano Salvini e Conte, ovvero sostenendo Mario Draghi con convinzione fino al completamento della legislatura e indicandolo come presidente del Consiglio anche per la prossima.