L’abbraccio e la curaIl metodo di Piccinini, l’insolito chirurgo che reinventò il rapporto con il paziente

Oltre all’estremo rigore tecnico e scientifico (che richiedeva studio continuo e soggiorni all’estero) ai membri del suo team al Sant’Orsola di Bologna veniva chiesto di interessarsi al malato e di volergli bene, con un nuovo approccio umano. La sua storia di medico cristiano, che lo porta alle soglie della beatificazione, è raccontata nell’ultimo libro (Bur Rizzoli) di Marco Bardazzi

di Aditya Romansa, da Unsplash

In quei primi mesi del 1999 in cui Enzo consumava le sue ultime giornate intense in giro per l’Italia affaticata di fine millennio, il suo team era ormai una squadra consolidata. Una realtà insolita nella Bologna «sazia e disperata» del cardinale Giacomo Biffi, roccaforte rossa che stava per consegnarsi al primo sindaco non di sinistra del dopoguerra, Giorgio Guazzaloca. Un piccolo nucleo di medici e infermieri che spiccava per la propria originalità di approccio dentro la gigantesca cittadella del Sant’Orsola.

Il vasto Policlinico di Bologna, che si estende con ventisette padiglioni per quasi due chilometri subito fuori dal centro, al di là di Porta Maggiore e Porta San Vitale, è sempre stato un luogo fondamentale per la vita della città al pari della Alma Mater Studiorum, l’Università di Bologna di cui fa parte, la più antica istituzione accademica al mondo. Nato nel 1592 come Ospedale Sant’Orsola e dedicato agli incurabili – la vocazione di cui Enzo aveva parlato nella sua conferenza a Cesena –, aveva accompagnato per secoli la vita della città fino a fondersi con il vicino ospedale Malpighi nel 1978, negli anni in cui il giovane Piccinini vi arrivò da Modena.

In vent’anni, Enzo e i suoi erano pian piano diventati una presenza originale in mezzo alla cittadella del Policlinico, un team che si era fatto notare da tutti nonostante fosse immerso in un ospedale dove oggi ogni giorno passano circa ventimila persone (e non erano molte meno vent’anni fa, includendo gli studenti di Medicina), con quasi millecinquecento posti letto e oltre cinquemila dipendenti.

C’era qualcosa di diverso nel modo con cui Piccinini e i suoi affrontavano le sfide della medicina. In tanti ne erano rimasti colpiti, e intorno a loro era cresciuta una piccola «scuola» che si ispirava a quel metodo e lo portava in altri ambiti e altri ospedali. «Normalmente nella medicina si dice che per essere oggettivo devi tenere la distanza con il paziente» spiega Ugolini.

«Con Enzo era l’opposto: se vuoi bene al paziente e sei coinvolto, lo curi anche meglio. La persona che curi ha bisogno di essere trattata in maniera scientificamente rigorosa, e noi eravamo sempre al lavoro per migliorarci in questo. Ma se al paziente dai anche una pacca sulla spalla e ti coinvolgi con lui, lo curi meglio».

Chi ha seguito e segue questo approccio, ispirato da Enzo, non può che confermare. «Di fronte al malato, per lui scattava un compito dove prima veniva l’abbraccio, poi la cura» racconta Fabio Catani, professore all’Università di Modena e Reggio Emilia e primario di Ortopedia e Traumatologia al Policlinico di Modena, un altro medico che ha modellato tutta la propria carriera sull’esempio e l’amicizia con Enzo. «Sull’aspetto della cura era severissimo su di sé; la conoscenza doveva essere sempre ad altissimo livello. Per questo studiava, girava il mondo e ci mandava all’estero a imparare: per cogliere tutti gli aspetti delle patologie che potevano dare una diagnosi completa e per imparare tutte le tecniche per affrontarle e cercare di risolverle».

Ma la tecnica da sola non gli bastava, come aveva raccontato a Cesena. Spiega Catani: «Il tema incessante nel rapporto con lui e quindi nel rapporto con chiunque, in particolare con il malato, era ed è la risposta al desiderio di compimento, di felicità, al desiderio che il limite umano e fisico, del malato ma anche nostro, possa essere accolto e abbracciato prima ancora di essere “risolto”. Questo è un dinamismo il cui punto centrale è il rapporto umano tra medico e paziente, dove le libertà e i limiti di ciascuno sono messi in gioco per ricercare fiducia, stima, conoscenza e, quando possibile, cura».

Per questo serve una relazione vera con il malato e la sua famiglia, che abbia quelle caratteristiche che Enzo descriveva nei dibattiti con gli addetti ai lavori in giro per l’Italia e che erano diventate prassi quotidiana al Sant’Orsola.

«Nel rapporto con il malato e la malattia» prosegue Catani «deve essere coinvolto tutto di noi, deve essere coinvolto ciò che più ci sta a cuore. Solo così potremo dare il massimo, cioè potremo mettere a disposizione tutto ciò che conosciamo, tutta la nostra professionalità e nello stesso tempo lavorare per aumentare la nostra conoscenza e capacità di cura. Soprattutto, solo così avremo la libertà di comunicare al malato e ai familiari il limite presente nella malattia e talvolta anche la nostra impotenza o il nostro errore».

Questa posizione in cui veniva «prima l’abbraccio, poi la cura» era tra i motivi per cui il piccolo team di Enzo si era trovato a gestire casi che arrivavano da tutta Italia, in un flusso continuo di cartelle cliniche, telefonate, lettere, incontri con famiglie che cercavano un medico che parlasse chiaro. E, trattandosi di un chirurgo oncologico, molto spesso erano casi drammatici. Ed Enzo molto spesso non si tirava indietro quando c’era da rischiare più di quanto non rischiassero i suoi colleghi di altri reparti e di altri ospedali.

«Quello di noi medici è un mondo pieno di regole, fatte anche per cercare di evitare problemi» dice Catani. «La regola è pensata da una parte per decidere come ci si deve comportare, ma spesso anche per proteggersi dal punto di vista legale. È fondamentale avere regole e linee guida, ma quando si tratta di malati ci sono in ballo aspetti e criteri di giudizio diversi. Enzo talvolta rompeva anche con le regole accademiche. Operava malati che altri non avrebbe ro toccato, rischiava persino con chi era dichiarato inoperabile. Perché lo faceva? Perché questo suo rapporto appassionato di conoscenza della realtà lo portava a tentare, sempre con ragionevolezza e sulla base di una solida preparazione tecnica e scientifica. E in questo lui si poneva spesso in conflitto, rompendo le regole. Ce lo ha insegnato nella vita di tutti i giorni e l’ha trasformato in una caratteristica del lavoro: il primo punto non è la regola, è il paziente. Cercare di curare e di salvare il paziente, anche se le circostanze potevano giocare contro».

Un atteggiamento che di sicuro non gli portava simpatie tra i colleghi nel mondo dell’accademia ospedaliera, che già lo guardavano con sospetto per quella sua appartenenza a un movimento cattolico, sempre testimoniata pubblicamente. A quarantotto anni, in quei suoi ultimi mesi di vita del 1999, era ancora lontano dall’essere primario e dai traguardi più importanti della carriera universitaria.

Ma non se ne curava molto. Gli interessava di più immergersi nelle centinaia di cartelle cliniche che il suo team riceveva da tutta Italia e che lui studiava nel minuscolo ufficio al Sant’Orsola dove aveva installato anche un letto, per quando non c’era tempo per tornare a casa a Modena. Ognuna di quelle cartelle era una storia personale che Enzo e i suoi colleghi seguivano con una dedizione totale, e per ognuna si aspettava risposte dettagliate quando telefonava a Ugolini e agli altri con la solita domanda: «Novità?».

da “Ho fatto tutto per essere felice – Enzo Piccinini, storia di un insolito chirurgo”, di Marco Bardazzi, Bur Rizzoli (in libreria dal 18 maggio), 2021, pagine 240, euro 16

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