Sebbene sia nella natura del mercoledì arrivare sempre a cose già iniziate, Vera sentiva che quel mercoledì avrebbe fatto eccezione: un incipit, non un semplice paragrafo di passaggio. Aveva la sensazione, inspiegabile eppure palpabile, che la nebbia avrebbe cominciato a diradarsi.
Aveva ripensato più volte al modo decisamente inconsueto nel quale l’avvocato Jäger si era messo in contatto con lei. Di solito, era lei a dare la caccia alle sue fonti: non viceversa. Perlopiù, anzi, loro facevano di tutto per non farsi stanare. Raramente le domande che era costretta a fare risultavano innocue e decidere di rispondere, significava inevitabilmente esporsi a qualche rischio. Una parola sbagliata, poteva avere conseguenze piuttosto serie; due, potevano rivelarsi pericolose; tre, mortali. Non tutti amano leggere il proprio nome sui giornali.
Il fatto, quindi, che, tra mille professionisti dell’informazione, un uomo di ottant’anni avesse scelto proprio lei e l’avesse cercata con tanta determinazione – per conoscere le sue abitudini e sapere che quelli erano il suo parco e la sua panchina, doveva averla seguita più di una volta – poteva voler dire solo una cosa: tacere era, per lui, infinitamente più rischioso che parlare.
Per questo, quando Vera Stark si ferma davanti al 181 di Hölderlinstraße e preme il pulsante del citofono contrassegnato dalle iniziali K.J., sono le diciassette in punto.
Appena il tempo di guardarsi intorno e notare con un certo sollievo che la strada è deserta, che il portone si apre, senza che il citofono faccia domande. E prima che la donna abbia il tempo di chiedere indicazioni, labiali appena accennate e una erre particolarmente arrotata la invitano a salire: «Terzo piano».
«Sa perché ho dedicato la vita a seguire le tracce di quella… gente?» chiede l’uomo, dopo aver fatto accomodare la giornalista in uno dei pochi angoli praticabili di uno studio non molto grande, ingombro di libri, giornali, fascicoli e carte. «Mi perdoni,» aggiunge subito dopo, guardandosi intorno come fosse la prima volta che si accorge dello stato di abbandono in cui volge quella stanza, «ma l’ordine e io non siamo mai andati particolarmente d’accordo: lui non rispetta la mia visione delle cose, io non condivido la sua».
«“L’ordine è la categoria del vuoto”, ripeteva spesso mio padre» sorride la donna.
Anche l’uomo sorride.
«Per aiutare la giustizia a fare il suo corso, immagino,» riprende la giornalista.
«Giustizia?» replica l’avvocato, soffiando un po’ d’aria dal naso e scuotendo la testa. «Mi creda: dopo tutto quello che ho visto, non so più nemmeno cosa sia la giustizia… No, Frau Stark, la giustizia non c’entra: ho dedicato la vita a quella gente perché ho capito molto presto che, al contrario di quello che tutti credevamo, gli alleati non hanno vinto la guerra».
«Mi perdoni ma non la seguo..». «Nella migliore delle ipotesi, hanno vinto una battaglia». «Una battaglia importante, mi sembra». «Importantissima, certo. L’euforia della vittoria, però, ci ha ingannati».
«Non crede che fosse inevitabile? Voglio dire: sette anni di guerra, settantacinque milioni di morti».
«Oltre venticinque dei quali tra i civili».
«Appunto: l’orrore dei campi di sterminio, torture, esperimenti genetici, fucilazioni di massa, fosse comuni, le atomiche sul Giappone… è normale che liberarsi da tutto questo dia alla testa..».
«È vero: ma avremmo dovuto essere più attenti, più intelligenti e, soprattutto, più scaltri».
«Scaltri?»
«Scaltri, sì. L’Europa era in preda a un’ubriacatura collettiva: aveva solo voglia di lasciarsi tutto alle spalle e non pensarci più. Sa qual è il problema? Che quella sbornia non ci è mai passata: non ci siamo più ripresi e non ci siamo resi conto del fatto che non era tutto finito».
«Si riferisce alla guerra fredda e a quello che è successo fino alla caduta del Muro?»
«Mi riferisco al male, Vera. Posso chiamarla Vera?»
«Ma certo, ci mancherebbe».
«A guerra ancora in corso, nazisti e servizi segreti angloamericani si stavano già accordando per il dopo… Capisce?»
«Il cinismo di certa realpolitik è davvero sconcertante».
«Cinismo? Qui siamo molto al di là del cinismo. È sconcertante. Disperante, anzi. Ho buttato più di cinquant’anni della mia vita a giocare al Don Chisciotte di provincia, convinto che ormai fossimo tutti dalla stessa parte… Uno stupido, ecco cosa sono. Stupido e patetico».
«Non dica così».
«È vero. La partita era truccata. Ed è ancora così. Dopo tutto quello che ho letto, visto e sentito, sono arrivato alla conclusione che sarebbe molto meglio che l’opinione pubblica non venisse mai a sapere certe cose».
«Mi spiace ma su questo non posso essere d’accordo. Non farei il mestiere che faccio. Un mestiere, mi creda, che non ho scelto a caso».
«Le credo, altrimenti non sarei venuto a cercarla».
«Capisco quello che vuole dire..».
«Ne è sicura?» «… ma rimango convinta del fatto che la verità deve essere detta. Sempre. Costi quello che costi».
«Verità, giustizia..». scuote ancora la testa.
«Mi addolora dirglielo, Vera, ma lei parla di cose che, purtroppo, non esistono. Non su questo pianeta, almeno».
«Dunque lei non crede che la Storia sia progresso? Che l’umanità vada avanti? Magari, al passo del più lento, come scrive Marquez, ma vada comunque avanti?»
«Il tempo va sempre avanti, Vera: l’uomo no. Più spesso va indietro. Non solo: di solito, più il passo in avanti è lungo, più lungo – e doloroso – sarà quello indietro: azione, reazione».
«Qualcosa di simile a quello che dice Archimede a proposito dei corpi immersi nei fluidi».
«Qualcosa del genere, sì. Se non ricordo male, però, per Archimede la spinta dal basso verso l’alto è pari al peso del volume del fluido spostato».
«Ricorda benissimo..».
«Ecco: è questa parità che alla storia manca. Completamente. Se la forza del passo indietro fosse davvero pari a quella del passo avanti, potrei anche accontentarmi. Ma la verità è che la seconda è quasi sempre doppia. Più che doppia, a volte».
«Capisco, ma rimango convinta del fatto che arrendersi sarebbe la fine».
«Guardi che non ho mai detto che intendo arrendermi: se lo credessi, lo avrei fatto molto tempo fa. Dico solo che ci sono verità che sarebbe molto meglio tacere, perché potrebbero avere effetti devastanti sull’opinione pubblica».
da “31 aprile – Il male non muore mai”, di Giuseppe Cesaro, La Nave di Teseo, 2021, pagine 448, euro 20