In tutto il mondo le persone sembrano essere d’accordo sul fatto che il libero mercato stia fallendo di fronte alle sfide associate con il cambiamento climatico e gli altri problemi ambientali. Ma le cose stanno davvero così?
Innanzitutto, guardiamo cos’è accaduto negli ex Stati socialisti. Nel 1990, il biologo e agronomo Zhores A. Medvedev fece questo bilancio dell’Unione Sovietica: «L’Unione Sovietica ha perso più pascoli e terreni agricoli a causa della contaminazione radioattiva della superficie totale delle terre coltivate in Svizzera […] In un contesto di gravi carenze alimentari, l’area totale di terra coltivata è diminuita di un milione di ettari all’anno dal 1975. L’Unione Sovietica sta perdendo le sue foreste alla stessa velocità con cui le foreste pluviali stanno scomparendo in Brasile. In Uzbekistan e Moldavia, l’avvelenamento chimico con pesticidi ha portato a tassi così alti di ritardo mentale che i programmi educativi nelle scuole secondarie e nelle università hanno dovuto essere modificati e semplificati».
Murray Feshbach e Alfred Friendly Jr., nel loro libro del 1992 “Ecocidio in URSS”, hanno concluso che «nessun’altra civiltà industriale come quella russa ha avvelenato così sistematicamente e così a lungo la sua terra, l’aria e le persone».
Il grande balzo in avanti di Mao
Nel suo libro “Illuminismo adesso”, Steven Pinker ha incluso un grafico che traccia l’intensità di carbonio o le emissioni di CO2 per dollaro di Prodotto interno lordo, dal 1820 al 2014. Quando Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno iniziato a industrializzarsi, hanno emesso sempre più CO2 per dollaro di PIL.
Dagli anni ’50 in poi, tuttavia, il grafico conferma chiaramente che le emissioni hanno iniziato a calare. Gli sviluppi in Cina e in India seguono un andamento simile, con un picco alla fine degli anni ’70 e a metà degli anni ’90, rispettivamente, prima di cominciare a scendere. A livello globale, l’intensità di carbonio è diminuita costantemente per più di mezzo secolo.
Un’analisi più attenta del grafico conferma che la Cina è stata un’anomalia estrema alla fine degli anni ’50, con un aumento dell’intensità di carbonio più drammatico che in qualsiasi altro Paese e in qualsiasi altro periodo dal 1820.
Ciò è stato interamente dovuto al più grande esperimento socialista della storia umana, il cosiddetto “Grande balzo in avanti” di Mao. Questo esperimento non solo causò la più grande carestia della storia e uccise 45 milioni di persone, ma fu anche un disastro ecologico.
Gli ambiziosi obiettivi di Mao per la produzione di acciaio dovevano essere raggiunti con piccole fonderie gestite dagli abitanti dei villaggi in tutto il Paese. Molti di questi forni non funzionavano bene, producendo nient’altro che lingotti di ferro di bassa qualità che si accumulavano ovunque, così piccoli e fragili da risultare inutili per i laminatoi moderni.
Alla fine del dicembre 1958, persino Mao fu costretto ad ammettere che il 40% dell’acciaio era inutilizzabile. L’acciaio che poteva essere usato era stato tutto prodotto nelle acciaierie convenzionali e di quello inutile il 40% proveniva dai piccoli forni. Allo stesso tempo, a causa di questi forni, le emissioni aumentarono notevolmente e la produzione economica diminuì, il che spiega la posizione della Cina come un’anomalia assoluta nel grafico sull’intensità di carbonio.
Non è la ricerca sfrenata del profitto da parte dei capitalisti, ma l’economia pianificata e il socialismo che hanno causato la più grande distruzione ambientale – non solo in Unione Sovietica e in Cina, ma in tutti i Paesi socialisti.
La catastrofe ambientale della Germania dell’Est
Come ha notato lo storico tedesco Hubertus Knabe, un esperto di storia della Germania dell’Est (DDR): «Uno dei più grandi killer climatici del mondo era in realtà un Paese che aveva abolito il capitalismo – la DDR». Con emissioni pro capite di gas serra fino a 21 tonnellate all’anno alla fine degli anni ’80, il Paese emetteva anche più degli Stati Uniti.
Quando il capitalismo prese finalmente piede nella Germania dell’Est dopo la riunificazione, le emissioni di CO2 scesero rapidamente: da 333 milioni di tonnellate nel 1989 a 164 milioni di tonnellate nel 1995. Le emissioni scesero significativamente anche in altri ex Stati del blocco orientale quando riformarono le loro economie in senso capitalista.
Verso la fine della sua esistenza, la DDR emetteva anidride solforosa in quantità di cinque volte superiori alla Germania dell’Ovest. Queste emissioni ebbero un impatto notevole, compreso il deperimento delle foreste su larga scala nelle catene montuose del Paese.
Le emissioni di particelle fini erano quasi cinque volte più alte nella DDR comunista che nella Repubblica Federale e capitalista tedesca. Nel sud del Paese, in cui erano ampiamente concentrate le industrie pesanti della DDR, quasi un bambino su due soffriva di malattie respiratorie e quasi uno su tre aveva l’eczema. Dopo la fine dell’economia pianificata, le emissioni di anidride solforosa e di particolato calarono bruscamente.
Il quadro è lo stesso quando si tratta dell’inquinamento dei corpi idrici. Quasi la metà di tutti i fiumi principali della DDR erano biologicamente morti nel 1989. Il 70% non poteva più essere utilizzato come fonte di acqua potabile. Quasi la metà degli abitanti della DDR aveva un accesso limitato o nullo all’acqua potabile quando apriva il rubinetto. Questo inquinamento era dovuto all’alta immissione di nitrogeno, fosforo, metalli pesanti e altri contaminanti nei corpi idrici del Paese – cosa che è diminuita sostanzialmente dopo la riunificazione tedesca.
Il capitalismo è da incolpare?
Lo storico Hubertus Knabe osserva anche che: «Come molti attivisti per il clima oggi, la leadership della DDR riteneva che l’unico modo per risolvere i problemi ambientali fosse abolire il capitalismo. Secondo la loro opinione, lo sfruttamento della natura era un risultato diretto dell’avidità delle imprese private, che doveva essere sostituito dalla pianificazione sociale ed economica. Questo, sostenevano, poteva accadere solo sotto il socialismo».
Il capitalismo è allora davvero la causa del cambiamento climatico e della distruzione dell’ambiente? Nel 2020, dei ricercatori della Heritage Foundation hanno confrontato le classifiche dei Paesi presenti nel loro Indice della libertà economica con quelle dell’Indice di performance ambientale (EPI) dell’Università di Yale e hanno scoperto che i Paesi economicamente più liberi – cioè i più capitalisti – avevano anche i più alti punteggi EPI, con una media del 76,1, mentre i Paesi “prevalentemente liberi” avevano una media del 70,2.
C’è poi un divario significativo tra questi e i Paesi “moderatamente liberi”, le cui prestazioni ambientali si sono posizionate molto più in basso (59,6 punti). I Paesi “per lo più non liberi” e “non liberi” avevano di gran lunga le peggiori valutazioni (rispettivamente, 46,7 e 50,3 punti nell’EPI). L’ambiente non è pertanto diverso da tanti altri settori e anche in questo caso si può affermare come il capitalismo non sia il problema, bensì la soluzione.