Il cumulismoClaretta Petacci era il simbolo dell’opportunismo fascista

L’amante di Mussolini è stata descritta come una fanatica esaltata, con il suo amore cieco per il Duce che la condusse alla morte. Ma è una storia scritta dagli uomini. Nel suo nuovo libro edito da Longanesi Mirella Serri offre un’immagine differente, descrivendo il suo vero ruolo politico negli eventi che condussero il regime dalla gloria alla sconfitta

LaPresse

La cosa che più mi ha sorpreso del nuovo, bel libro di Mirella Serri Claretta l’hitleriana (Longanesi) non è tanto che, per una volta, a scrivere male di una donna sia un’altra donna, né che faccia a pezzi un santino della mitologia rosa, andando a rafforzare una corrente storiografica che potremmo chiamare “re-revisionista”, dopo i profluvi di revisionismo e di pansismo che hanno cercato di contrabbandarci una versione edulcorata del ventennio come dittatura benevola.

La vera rivelazione è quello che fa da sfondo e da contorno alla carriera erotica e politica dell’amante di Mussolini: la nuova borghesia del Littorio, la casta affaristica prosperata all’ombra del duce, di cui il clan Petacci, familiari, parenti e sodali di Claretta, è parte integrante. 

«Dopo la crisi mondiale del Ventinove – ricorda Mirella Serri – nella Penisola paradossalmente si consolidavano nuove fonti di ricchezza, mentre si saldavano i rapporti fra la politica e il mondo dell’industria, delle banche e delle nuove istituzioni che stavano spuntando numerose…Una fitta schiera di prefetti, questori ed esponenti della piccola e media borghesia era pronta all’assalto delle poltrone».

E cita un testimone eccellente, Guido Leto, ex-capo dell’Ovra, la polizia segreta del regime: «La caccia alle cariche che si stava scatenando per ottenere nomine e consulenze presso gli enti pubblici e parastatali fu frenetica. Generò il cumulismo contro il quale ogni arma si spuntò».

E anche «la caccia alle automobili di Stato, alle facilitazioni ferroviarie, alberghiere, fiscali, all’uso di personale subalterno per servizi privati (camerieri, autisti, attendenti), agli inviti nei teatri e nei pubblici spettacoli in genere».

L’assalto alle finanze pubbliche spolpa il Teatro dell’Opera di Roma «assediato da postulanti autorevolissimi che ottenevano palchi e poltrone» e consente ai gerarchi di costruirsi case e ville a spese dello Stato, «su terreni demaniali o comunali ottenuti a bassissimi prezzi, con mutui a lunga scadenza e con un tasso minimo».

Tutta un’economia ruotava intorno alla casta, impresari edili, muratori, falegnami, artigiani che si contendevano licenze, appalti e posti di lavoro in cambio di tangenti. E della fedeltà al fascismo. Perché il “cumulismo” delle cariche e dei benefici si accompagnava alla corruzione e al furto nella pubblica amministrazione. E senza la tessera del Partito nazionale fascista non si poteva lavorare.

Come tutti i movimenti populisti, continua Serri, il fascismo si era presentato come moralizzatore del disonesto stato liberale. «La commissione sulle spese di guerra dimostrò gli ingenti sopraprofitti realizzati dagli industriali durante il primo conflitto mondiale. Mussolini utilizzò la denuncia dei guadagni dei corrotti come strumento di propaganda politica ma dopo esser stato nominato capo del governo soppresse la Commissione».

Quando cominciano a venire a galla le ruberie dei gerarchi, il duce si affretta a promuovere inchieste per scovare e reprimere il “marciume”. Peccato che le affidi a un uomo come il senatore Arturo Bocchini, capo della polizia, che «si accaniva proprio contro quelli che svelavano le magagne e non puniva chi le commetteva». E in ogni caso informava i corrotti e li metteva in allerta sulle indagini sul loro conto.

Del resto lo stesso Mussolini era il primo beneficiario del flusso di denaro pubblico succhiato dal regime. Il 25 luglio 1943, alla caduta della dittatura, risultò avere accumulato un patrimonio di circa due miliardi di lire (dell’epoca, valutabile intorno a 665 milioni di euro attuali). E il clan Petacci, come ci racconta Mirella Serri, non si era fatto mancare nulla, tra case alla Camilluccia, oro e petrolio della Transilvania.

Lo tengano bene a mente gli honesti tagliatori di poltrone e di indennità. La “casta” si rimpingua infinitamente di più nei regimi autoritari che non nelle democrazie liberali. Là dove lo Stato è il principale se non il solo datore di lavoro, dove la sottomissione al potere è condizione imprescindibile per l’esercizio di qualsiasi attività, la corruzione diventa la norma e le tangenti sono come le tasse o i ticket da noi. E questo è vero a qualsiasi latitudine, dal Venezuela di Maduro alla Russia di Putin. Poi certo, quando c’era Lui eravamo padroni a casa nostra (almeno fino all’8 settembre), non esistevano la Ue o le direttive Bolkestein, e il concessionario dei Bagni Sirena dormiva tranquillo, coi gerarchi sotto l’ombrellone, senza temere che qualcuno gli soffiasse la rendita di famiglia da tre o quattro generazioni.

Il Littorio non voleva concorrenza, tanto meno straniera. Il Littorio proteggeva, coccolava chi piegava la schiena e metteva la cimice all’occhiello. Si capisce che qualcuno lo rimpianga. E si capisce pure che in piena crisi pandemica un governatore di Regione pensi bene di rinverdire i fasti del cumulismo moltiplicando province e capoluoghi, un esercito di presidenti, assessori, consiglieri, direttori amministrativi e relativo staff. È un residuo di cultura fascista, autarchica e statalista, che ancora serpeggia nell’Italia del 2021, a un secolo di distanza dalla marcia su Roma. Un residuo magari inconscio, che non salta agli occhi, ma dovrebbe farci paura almeno quanto gli zombi che tendono il braccio ad Acca Larenzia. 

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter