La nuova prospettivaL’innovazione digitale deve essere la colonna portante dei musei

Nel loro libro “Le memorie del futuro” (Einaudi) Evelina Christillin e Christian Greco, presidente e direttore del Museo Egizio di Torino, spiegano che gli oggetti e testimonianze storiche rappresentano il ruolo che hanno avuto e che continuano a svolgere all’interno della società. Ma per tramandare la loro importanza alle generazioni future è necessario renderli accessibili con nuove tecniche che rivoluzionino il modo di vivere l’arte

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Tra le 130 pagine del saggio Le memorie del futuro. Musei e ricerca, appena uscito per Einaudi, emerge tra i tanti un dato molto interessante: risulta fittizia, o quantomeno artificiale, quella divisione tra cultura conservativa del passato e attualità avanguardista e oltre. Il museo, ma vorrei dire l’arte tutta, è sempre contemporanea nel momento in cui è il nostro sguardo, di donne e uomini del 2021 che stanno attraversando una fase tanto delicata quanto inedita, a posarsi su un oggetto, reperto, manufatto che continua a svolgere un ruolo di testimonianza e di memoria ma non esaurisce lì il suo compito perché in verità innesca un cortocircuito molto più profondo e complesso.

Lo hanno scritto Evelina Christillin e Christian Greco, presidente e direttore del Museo Egizio di Torino, che lavorano insieme dal 2014. Aldilà dell’ampliamento dello spazio espositivo, del miglioramento dei servizi, della pronta risposta alla pandemia attraverso un piano di comunicazione social davvero stimolante, si riconosce loro l’intuizione che in Italia, ma forse in Europa, è più urgente innovare quando hai tra le mani un importante patrimonio storico, sennò ti immobilizzi.

Innovare significa rendere il museo una struttura mobile e dinamica, che consideri le collezioni il repertorio principale su cui lavorare quotidianamente, che si interroghi sulla necessità di coinvolgere e fidelizzare nuovi pubblici, che ribalti la vetusta modalità didattica rimasta incagliata agli anni ’70 in favore di un coinvolgimento attivo dei più giovani e soprattutto capisca che il modello di istituzione basata sulla centralità, se non addirittura della supremazia, della cultura occidentale è un criterio oggi improponibile.

Tema caldo quest’ultimo, affrontato nel mondo in sede politica su cui si innesca la discussione intorno alle cosiddette restituzioni, se sia giusto o no riportare alcuni tesori nei loro luoghi d’origine. Rispetto, per esempio, al caso della Venere di Cirene restituita alla Libia nel 2008, dopo che il TAR bocciò il ricorso di Italia Nostra assolutamente contraria – fa sempre un certo effetto pensare che una scultura così importante possa essere trasferita in un Paese a rischio guerra, visti i precedenti di devastazione del patrimonio storico-artistico in medio oriente, in Africa, in Afghanistan – rispetto ad allora i tempi sono ancora cambiati e bisogna tenere conto che l’unico punto di vista non può più essere solo il nostro.

Se è per questo, anche gli utenti del Museo saranno a breve persone con altre storie e geografie e sollecitarne in qualche modo il sentimento dell’appartenenza appare una delle condizioni necessarie per provare a ridurre una cifra molto drammatica: oltre il 60% della popolazione italiana non avrebbe mai visitato un museo. Indipendentemente da ciò che conserva, bisogna dunque interrogarsi sulla “funzione” del museo e prima ancora di ripercorrerne le fondamentali tappe storiche – l’antico Egitto, la Grecia classica, Roma fino al museo moderno di stampo secentesco che si diffonde in tutta Europa durante l’Ottocento anche come esternazione di potere – c’è da interrogarsi sulla sua funzione di dispositivo di memoria collettiva.

Scrivono Christillin e Greco che «la proliferazione delle modalità di produzione e archiviazione di dati, oltre alla diffusione di nuovi mezzi di memorizzazione esterna, ci mette di fronte al fatto che stiamo vivendo una rivoluzione culturale di importanza equivalente a quella dell’invenzione della scrittura, della stampa, e della fotografia. La cultura del ricordo è inerente alla comunità che si interroga sulla propria identità». 

Gli oggetti che formano la raccolta di un museo “servono” innanzitutto per innescare il ricordo, per far si che non vengano dimenticate alcune epoche della storia e dell’umanità, insomma “come eravamo”. In tal senso l’archeologia è molto vicina all’arte contemporanea: se un oggetto, un utensile e quindi un’opera è certificata dal contesto (e dunque dal museo stesso) assume importanza e valore, altrimenti rischia di confondersi con la realtà ordinaria. Però c’è bisogno, per entrambe, di scendere dal piedistallo. «Diviene sempre più importante raccontare gli oggetti nella loro valenza di documenti storici, svelare il ruolo che hanno avuto e che continuano a svolgere all’interno della società. Si deve, in qualche modo, togliere gli artefatti dal loro piedistallo e renderli accessibili». E come? Certamente investire nel racconto delle collezioni permanenti, inserendo l’oggetto all’interno di un paesaggio più complesso che può essere ricostruito attraverso le svariate tecniche digitali (già nel 2019 il Museo Egizio di Torino sperimentò tale linguaggio nella mostra Archeologia invisibile).

Diventa perciò indispensabile una visione del museo come agency (a riferimento penso al saggio di Alfred Gell Arte e Agency. Una teoria antropologica pubblicato negli anni ’90 e ancora molto attuale), prodromica a una vera e propria rete di connessioni sociali. Certo, qui gli studiosi dell’Egizio riflettono su collezioni di manufatti, mentre il museo italiano fonda il proprio successo sul dominio dell’autore. Se possiedi Giotto, Michelangelo, Leonardo, Raffaello e Caravaggio il tuo museo sarà particolarmente attrattivo. Eppure questa modalità da highlights, che ha provocato il sistema del mostrificio il più delle volte semplificato, mostra tutti i limiti. Se non si sperimenta ora, se non si osa ora, stimolati da uno stato di crisi, quando allora?

Le memorie del futuro (che sembra un ossimoro e non lo è) offre spunti a chi si occupa di arte a 360 gradi e, paradossalmente, soprattutto a noi contemporaneisti: senza l’urgenza e la pretestuosità dell’hic et nunc la riflessione si fa ancor più profonda e stimolante.

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