Emma Bonino, la prima cosa che volevo chiederti è un ricordo del rapimento Moro.
Vivevo in via Giulia e Adelaide Aglietta, che abitava con me, aveva già accettato di fare la giudice al processo contro le Brigate rosse. Mi comunicarono la notizia e io dovetti darla a lei che era a Torino. Adelaide, allora segretaria dei radicali, aveva fatto una scelta molto coraggiosa. Era stata sorteggiata come giudice popolare e non aveva rinunciato. C’era stata nei giorni precedenti una fuga di giurati da quel processo. In cento avevano rinunciato, per timore di rappresaglie. Sembrava impossibile formare il collegio. Fu grazie a lei che finalmente si costituì la giuria popolare. Conoscemmo in quei giorni una serie di ipocrisie: tutti i segretari dei partiti assicurarono che «fosse toccato a me l’avrei fatto anch’io». Adelaide rifiutò la scorta perché pensava di essere più protetta dalla nonviolenza e dal suo modo di essere e quindi rimase a Torino. Nei giorni di Moro io ero veramente giovane. Ero appena entrata in Parlamento e il mio obiettivo, quasi la mia ossessione, era conquistare la legalizzazione dell’aborto. La politica per me allora era quello, solo dopo mi sono appassionata ad altro.
Le lettere di Moro? Voi foste tra i pochi a non cedere alla tesi della pura manipolazione.
La crisi fu affrontata, per noi, da Pannella e Gianfranco Spadaccia, da quella generazione di radicali. In generale quella crisi fu gestita solo da uomini, la politica italiana era ancora più maschilista di oggi. Si discusse persino se pubblicarle o no, quelle lettere. Era un teorema: le lettere non sono di Moro, sono estorte, quindi non bisogna divulgarle. Moro fu delegittimato da vivo, da prigioniero dei terroristi. Lui cercava di svolgere la sua visione della politica e dello Stato e i partiti gettavano nel cestino le sue missive. Marco, Sciascia, Jannuzzi e un giro socialista si opposero a questa versione e cercarono una soluzione politica. Perdemmo, nel senso che passò la linea della fermezza. Ero convinta allora, lo sono ancora di più di oggi, dopo aver conosciuto tanti conflitti e tante guerre: con il nemico si dialoga. È sempre il dialogo la via della pace.
Chi realizzò quell’operazione? Le Br da sole o con altri?
Io ho l’impressione le Br da sole, perché altri non se ne sono mai trovati. Ma quello che è certo è che in quei giorni sono fioccati depistaggi di varia natura.
Quando Giovanni Leone compì novant’anni, tu e Pannella gli scriveste una lettera di scuse per la campagna ingiusta che aveva portato alle sue dimissioni. Un gesto raro e prezioso.
Allora la spinta, sullo scandalo della Lockheed, era dell’«Espresso»: Camilla Cederna, Gigi Melega. Noi svolgemmo un’attività parlamentare con interrogazioni e richieste di dimissioni. Era il periodo in cui i radicali erano molto impegnati contro il finanziamento pubblico ai partiti. E quindi quella vicenda si incrociava con quella campagna. Io la seguii poco perché mi stavo preparando per le elezioni europee che mi portarono nella prima assemblea continentale eletta dal popolo: c’erano Altiero Spinelli, Simone Veil, Giorgio Amendola…
Leone fu vittima del giustizialismo.
Una delle tante. Una vittima ante litteram.
Paradossalmente proprio da voi, che siete sempre stati i nemici del giustizialismo…
Sì, però con la capacità, seppure anni dopo, di riconoscerlo. Ricordo che Marco lo andò a trovare. Avevamo sbagliato. Riconoscerlo fu un atto di onestà, credo rara. Era stata una campagna ingiusta. Ricordo la Cederna sul caso Tortora. Disse: «Se arrestano uno alle tre di notte in questo modo di certo qualcosa avrà fatto».
Ecco, parliamo di Tortora…
Siamo nel 1983. Enzo viene arrestato con grande clamore. Jannuzzi, Sciascia e soprattutto Montanelli ci convinsero che non era possibile lui fosse colpevole di nulla. Lo conoscevano, lo stimavano. Avevano ragione. Tortora finisce agli arresti domiciliari, arrivano le elezioni europee del 1984. Marco disse in una riunione: «Ma perché non lo candidiamo al Parlamento europeo e portiamo il caso mala giustizia in Europa?». Enzo Biagi era totalmente contrario. L’ultimo giorno utile per la presentazione delle liste Marco mi manda a Milano a casa di Enzo, con l’obiettivo di convincerlo. «Ricordati che è sabato, devi andare con un notaio e tornare in tempo utile.» Vado. Lo trovo insieme a Enzo Biagi, che era un suo sincero amico, e alla sua compagna Francesca. L’atmosfera era gelida. Io poi non lo conoscevo e nessuno mi filava. Ero una ragazzina. A un certo punto presi coraggio e dissi: «Enzo, ci parliamo un attimo?». Mi resi subito conto che lui era più convinto di me. Resisteva per dato amichevole, ambientale, Francesca era contenta. Mi disse: «Io lo vedevo morire in casa, senza fare niente». E iniziò la prima campagna elettorale via Radio radicale. Lui interveniva da Milano ed era bravissimo. La campagna decollò, in questo modo strano. Un po’ come oggi col lockdown. Enzo venne eletto. Gli avevamo promesso di organizzare un grosso convegno al Parlamento europeo sulla giustizia. Enzo non era di facile carattere. Ma io ero abituata ai caratteri difficili, da mio padre a Pannella, a Sciascia. Ricordo che per quel convegno scrivemmo una lettera a tutti i colleghi dicendo: «Vi invitiamo perché nel nostro Paese si può stare agli arresti provvisori anche per mesi, anni prima che arrivi il processo». Ricordo che mi chiamarono due o tre colleghi britannici: «Veniamo volentieri, però guarda che c’è un errore. Nella tua lettera tu dici mesi e settimane. Devi aver sbagliato, forse volevi dire tre o quattro giorni». Per loro era impensabile. Enzo svolse l’attività parlamentare con grande serietà e poi decise di consegnarsi. Andò a processo. C’erano diciassette pentiti, tutti omologati, tutti allineati sulla versione che era stata suggerita. Nessuno aveva fatto accertamenti. Nessuno. Poi c’era l’agendina del camorrista in cui c’era scritto Tortora. Invece era Tortosa. Fino alla fine Enzo disse: «Io sono innocente spero che lo siate anche voi». Morì due anni dopo.
Perché fecero quella operazione su Tortora?
Io non so perché scelsero Tortora. Era la prima vittima celebre del giustizialismo, della spettacolarizzazione. Fu un’inchiesta condotta in modo scandaloso. Senza verifiche, accertamenti. Contava solo la versione dei pentiti. Ma quei giudici hanno fatto carriera.
Perché la cultura laica e dei diritti alla quale tu hai sempre fatto riferimento non è mai stata maggioritaria?
La cultura liberale o la cultura delle libertà personali e dei diritti individuali, l’individuo come centro della società, era totalmente estranea a quella della Dc che era: «Soffrite in terra e poi andrete in paradiso» e del Pci che era: «No, contano solo le masse». E quindi dal loro punto di vista i temi che noi sollevavamo, la giustizia, il divorzio, l’aborto, erano frivolezze radical-chic. Per il Pci la politica si faceva solo nelle fabbriche. I radicali erano una puntura di spillo, molto fastidiosa.
Avevamo al centro l’individuo come protagonista, i diritti civili che consideravamo alla stessa stregua di quelli sociali. Una differenza d’impostazione culturale. Era anche difficile dialogare. Non perché la lotta all’aborto clandestino non andasse bene, ma non era una priorità. Non perché la giustizia giusta non andasse bene, ma non era una priorità.
Non erano questioni sociali…
Io ho sempre tentato di spiegare che i diritti civili sono questioni sociali perché se hai i soldi per divorziare trovi la Sacra Rota o vai a Londra per abortire. Quindi per me sono diritti sociali, sono problemi sociali, tasse umane e finanziarie. Indirette o dirette. La mia idea mi differenziava un po’ dal Movimento femminista al quale arrivo tardi. Non sono mai stata separatista. Sono sempre stata convinta che il personale è politico ma il privato non è pubblico. Oggi constato, dopo vent’anni, che è l’inverso. Cioè che il privato è inopinatamente e inutilmente pubblico. E il personale non è più politico.
da “Il caso Moro e la Prima Repubblica”, di Walter Veltroni, Solferino libri, 2021, pagine 192, euro 16,50
la versione completa dell’articolo è stata pubblicata il 12 luglio 2020 sul Corriere della Sera