Nell’ottobre del 1818 il Congresso di Aquisgrana aveva messo definitivamente un termine alle attese di Napoleone, a quelle, almeno, che egli ancora nutriva o si illudeva di nutrire.
Accolta nuovamente in seno al concerto delle grandi potenze europee, la Francia dei Borbone aveva ottenuto, grazie all’appoggio dell’Inghilterra, alla quale le altre potenze avevano riconosciuto la correttezza della sua condotta nei confronti del “prigioniero” di Sant’Elena, che la stabilità del nuovo ordine poggiasse sull’esilio perpetuo di Napoleone.
Niente, dunque, sarebbe più cambiato e l’uniformità del tempo, le giornate destinate a scorrere in apparenza senza presente, in realtà senza avvenire, mutarono definitivamente in ciò che erano sempre state, ma che, con molto impegno, si era provato a evitare che fossero: una condanna a vita o, per dirla con una bella espressione di Montholon, «frammenti di lava raffreddati dal tempo».
Le ore di Napoleone hanno, infatti, ormai assunto la densità di un’era geologica e di essa conservano pure l’immutevole consistenza. «Per compensare un poco la mancanza di esercizio all’esterno, l’Imperatore giudicò che il giardinaggio fosse ciò che si addiceva meglio al suo stato di reclusione».
Le parole asciutte di Alì aprono, nell’autunno del 1819, il sipario sull’ultima, inattesa reazione di quello straordinario combattente che non aveva mai cessato di essere Napoleone, l’ultima battaglia, non meno ammirevole delle altre, anche se le trincee erano i piccoli fossati che avrebbero accolto i fiori e i nemici erano, alternandosi, l’umidità e la siccità.
«Da quel momento – racconta ancora Alì – non ci fu altro che i giardini. Tutta la casa ne venne circondata». Aggiungendo a conferma del piglio guerresco che aveva preso il progetto agli occhi dell’Imperatore: «Era stato il modello delle fortificazioni a dargli questa idea: voleva avere poi a disposizione frutta, legumi, voleva qualche viale ombreggiato, voleva allontanare le sentinelle dalle sue finestre, ecc.».
Il piglio con cui Napoleone aveva deciso l’impresa e la dirigeva sorprese anche Hudson Lowe. Lo scrutava, da lontano, con un cannocchiale: aveva ormai abbandonato i logori abiti portati dalla Francia e vestiva come i coloni dell’isola, un pantalone e una larga camicia a sbuffo di cotone, delle scarpe leggere di marocchino rosso e in testa un grande cappello di paglia.
Abbigliato così, come lo ritraggono molte delle incisioni di Sant’Elena, Napoleone comandava sin dalle prime ore del mattino la sua minuscola armata di operai cinesi e di domestici francesi. Una robusta campana che aveva fatto fissare contro il muro di Longwood House svegliava tutti di buon mattino. Se qualcuno tardava, l’Imperatore, lanciando una buona manciata di terra alla sua finestra, si incaricava personalmente di tirarlo giù dal letto. Ognuno, poi, impugnava uno degli attrezzi che Pierron, il pasticciere, era andato a comprare a Jamestown: vanghe, zappe, carriole. A Napoleone spettavano un rastrello e una vanga.
Da quel momento cominciava a impartire una raffica d’ordini con la medesima concitazione ed energia con le quali aveva comandato gli eserciti di Austerlitz e di Marengo. Mentre a Noverraz erano state (non sappiamo bene perché) subito riconosciute competenze che gli erano valse la bonaria carica di “giardiniere in capo”, il povero Al’ si era ritrovato nella scomoda posizione di un ufficiale di Stato maggiore, subissato di incarichi e di rimproveri alternando, peraltro, questa ingrata funzione a quella, mai abbandonata, di bibliotecario e di estensore delle dettature memoriali che in Napoleone il ritrovato slancio vitale non solo non aveva fatto dimenticare, ma aveva addirittura accresciuto.
Montholon si svegliava insieme a tutta la casa, Bertrand arrivava, invece, verso le otto. A tutti e due, senza troppa fortuna, l’Imperatore aveva provato piú volte a mettere in mano un piccone o una vanga. Lavoravano male, contro voglia. Aveva anche provato a persuaderli dei vantaggi del giardinaggio, unico rimedio alla monotonia delle loro giornate.
«Non vale la pena di cambiare modo di annoiarsi», era stata la lapidaria risposta di Bertrand.
Napoleone stesso, del resto, aveva presto abbandonato gli attrezzi del mestiere. «Mestiere troppo duro, non ne posso più, e poi le mani mi fanno male», aveva confessato un giorno, gettando definitivamente a terra la sua zappa.
Tutti e tre, quindi, si ritrovavano alle dieci per far colazione e chiacchierare (o continuare a chiacchierare) all’ombra di un arancio o di una quercia. Chi fino a quel momento aveva scavato, trasportato, costruito, ora poteva lavarsi velocemente le mani, smettere gli abiti da lavoro, indossare la livrea e ritornare il valletto pronto a servire la colazione di prima.
Ancora un’oretta di attività fino a mezzogiorno, poi il pranzo (con eguale, rapido cambio di costumi) e ancora lavoro fino alle quattro. Faceva caldo, però, e Napoleone quasi sempre preferiva rimanere in camera a leggere. Ricompariva a fine giornata, quasi al tramontare del sole, per innaffiare il giardino con una pompa sistemata su delle ruote.
da “L’ultima stanza di Napoleone – Memorie di Sant’Elena”, di Luigi Mascilli Migliorini, Salerno editrice, 2021, pagine 14, euro 14