Il terrorismo, l’immigrazione irregolare e i conflitti armati a cui l’Ue ha dovuto assistere da spettatore hanno impartito una doppia lezione all’Unione europea: il soft power non basta per avere un ruolo determinate su alcuni dossier, ma allo stesso tempo l’aumento dell’hard power porta con sé problemi difficili da risolvere.
In passato le risorse diplomatiche europee si sono dimostrate uno dei punti di forza dell’Unione, ma negli ultimi anni Bruxelles ha deciso di puntare anche sul rafforzamento del proprio esercito attraverso due programmi: l’European defence fund (EDF) e l’European peace facility (EPF), di più recente formazione. Grazie all’Epf, l’Unione può contare per i prossimi sette anni su un budget di 5 miliardi per finanziare le missioni di politica estera e sicurezza comune al fine di prevenire i conflitti, preservare la pace e rafforzare la sicurezza e la stabilità a livello internazionale. Tramite questo fondo off-budget, l’Ue sarà in grado di migliorare le proprie capacità di risposta e di gestione dei conflitti, ma anche di rafforzare i Paesi partner fornendo loro addestramento ed equipaggiamento militare. Per la prima volta, quindi, Bruxelles potrà armare anche forze non europee e sarà in grado di dialogare direttamente con i singoli Governi.
Continuare a non essere presenti in determinati teatri non è più una scelta possibile e per affrontare questioni come il terrorismo o l’immigrazione servono strumenti nuovi. Come spiegato da quegli Stati europei che più di altri hanno spinto per l’adozione dell’Epf, è tempo che l’Unione si occupi maggiormente della propria difesa, soprattutto nel momento in cui gli Stati Uniti sono sempre meno interessati a dossier tuttora fondamentali per la sicurezza del Vecchio continente. Come quello africano.
«Da una parte l’Ue ha dovuto essere sempre più presente in Africa sia per rispondere alle sfide che arrivano dal continente in termini di sicurezza e che hanno un impatto diretto sull’Unione come terrorismo e immigrazione illegale, sia per una questione di opportunità. L’Africa è un vicino in dinamica evoluzione con il quale l’Ue può costruire una partnership costruttiva in diversi settori», spiega a Linkiesta Nicoletta Pirozzi esperta di relazioni Ue-Africa dell’Istituto Affari Internazionali (Iai). Ma l’intervento nel continente africano è anche diventato una necessità in quanto «centro delle attenzioni e dell’attivismo politico di altri attori come la Cina, i Paesi del Golfo e la Turchia, che si sono profilati quali competitor strategici dell’Ue».
Da anni la politica estera dell’Unione è particolarmente attenta alle sorti del continente africano, sia sotto l’aspetto umanitario che militare. Bruxelles ha da poco annunciato un piano per sostenere la produzione di vaccini in Africa contro il Covid-19, ma è anche impegnata con diverse missioni militari per l’addestramento delle forze armate e il contrasto al terrorismo. Come riportato dal Financial Times, negli ultimi sette anni l’Ue ha investito 1,3 miliardi di euro per le sue missioni in Africa e si è interessata particolarmente all’area del Sahel, che ha beneficiato dell’80 percento dei 4.7 miliardi utilizzati dal 2014 al 2020 per lo sviluppo e la stabilizzazione del continente africano.
Ma l’operato europeo e i progetti finanziabili tramite l’Epf non sono esenti da critiche. La fornitura di armamenti potrebbe rafforzare leader autoritari e repressivi, rendendo ancora più instabile il continente africano e minacciando quegli stessi valori che l’Europa si è invece impegnata a difendere e promuovere nel resto del mondo. Come hanno fatto notare diverse organizzazioni di difesa dei diritti umani, il comportamento europeo è come minimo contraddittorio nel momento in cui promuove i suoi valori all’estero ma rafforza anche le capacità militari di partner poco attenti alle dinamiche democratiche e posti a capo di Stati deboli, spesso teatro di golpe militari. Il rischio quindi è che tanto le armi quanto i programmi di addestramento siano utilizzati per scopi ben diversi da quelli previsti in sede europea.
La cronaca degli ultimi mesi fornisce già due esempi in merito. Il primo è la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby, ricordato dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen come «un alleato nella lotta contro il terrorismo» e da Borrell come «figura politica storica». Entrambi però hanno glissato sul fatto che Déby governava in maniera incontrastata dal 1990, anno in cui aveva preso il potere con un colpo di Stato. Altro esempio riguarda invece la Guardia costiera libica, addestrata dall’Ue e accusata di aver commesso ripetuti abusi nei confronti dei migranti che cercavano di raggiungere l’Europa.
Eppure restare fuori dal continente africano non è più un’opzione per l’Ue. «Da una parte vi è l’imperativo di essere presenti in Africa in maniera efficace, dall’altra invece c’è la necessità di articolare una presenza che tenga conto dei valori fondanti del progetto europeo e di tutti quei principi che ne ispirano la politica estera. L’Epf è l’emblema di questa tensione», spiega ancora Pirozzi.
La sfida quindi è rendere l’Epf uno strumento sostenibile e garantire che il sostegno militare vada di pari passo con il sostegno dei processi democratici e con il rafforzamento della governance. «Non si può avere una risoluzione dei conflitti in Africa se non si procede parallelamente su più fronti con il rafforzamento delle strutture civili e democratiche che garantiscano il controllo dell’impiego della forza militare». Raggiungere questo tipo di equilibrio, sottolinea Pirozzi, non è però facile e in molti casi l’Ue si è esposta a critiche di doppio standard avendo collaborato con Governi o leader che non avevano una credibilità di tipo democratico per esigenze di sicurezza che non sono più sostenibili.
«Per far fronte a questo problema, l’Ue ha avviato una riflessione e il concetto di resilience inserito in vari documenti strategici va in questa direzione, per cui si cercheranno strumenti che evitino di dissociare le esigenze di stabilità e sicurezza con quelle di democrazia». Ma, conclude Pirozzi, dal punto di vista pratico-operativo la strada è ancora lunga e bisogna anche vedere che risultati darà l’Epd. «Il processo in corso è inevitabile e necessita della massima attenzione da parte delle istituzioni Ue e degli Stati membri, così come della società civile».