A ciascuno il suo La corsa ad allungare l’esistenza ignora il diritto di chi la vuole finire con dignità

Nel corso degli ultimi secoli, l’essere umano è riuscito a rendere più alta l’aspettativa di vita. Le previsioni più visionarie della medicina puntano a una longevità che superi il secolo e mezzo. Ma nel frattempo viene trascurato il desiderio di chi, di fronte alla sofferenza e alla perdita di controllo, preferisce essere aiutato a morire

di Peter Mantice, da Unsplash

Uno dei maggiori successi dell’epoca moderna è stato l’allungamento della vita umana. Le aspettative, anche solo 300 anni fa, erano bassissime. Molti morivano appena nati, molti altri negli anni successivi. Come spiega Steven Johnson nel suo libro “Extra Life: A Short History of Living Longer”, «essere bambini significava trovarsi sempre in pericolo di vita». Malattie, infezioni, diarrea, erano cause di morte costanti e comuni.

Un fenomeno che non distingueva tra classi sociali (anzi, spesso i più agiati erano più a rischio perché alla mercé di dottori che proponevano cure peggiori del male), né tra nobili e plebei (il ramo degli Stuart si interruppe perché la regina Anna, nonostante le 18 gravidanze, ebbe solo un bambino che superò i due anni di vita. E morì all’età di 11).

Le scarse condizioni igieniche e la mancanza di difese contro le malattie contribuivano, insieme ad altri fattori, a tenere bassa l’aspettativa di vita, anche nelle regioni più ricche e industrializzate.

Il libro, come ricorda questo articolo del New Yorker, è una approfondita descrizione di quello che è stato, a conti fatti, un fenomeno rivoluzionario.

Il progresso umano era intervenuto in varie aree, «in migliaia di anni abbiamo inventato l’agricoltura, la polvere da sparo, la partita doppia, la prospettiva» ma non si era riusciti a cambiare nulla in un aspetto importante dell’esistenza: la sua durata. Per questo, che l’autore definisce the great escape, la grande fuga, saranno necessari altri secoli e alcune invenzioni importanti.

Si va dalla prima raccolta sistematica dei dati sui morti di una città, come quella di Londra, compiuta da John Gaunt nel XVII secolo (le prime «tavole di mortalità»), che permette non solo un approccio di ampio respiro al tema, ma introduce anche riflessioni generali sul comportamento delle malattie (per questo Gaunt è considerato, in un certo senso, il primo epidemiologo della storia) e sul tema della mortalità.

I cambiamenti arrivano di lì a poco e vengono raggruppati per il volume di vite che hanno salvato: vaccini, fertilizzanti artificiali, fognature ne hanno salvate miliardi, invenzioni come gli antibiotici e la pastorizzazione centinaia di milioni, mentre l’angioplastica, l’anestesia e le cure per l’AIDS.

Oggi il quadro è cambiato, anzi: lo è dagli anni ’60, dove “la grande fuga” è diventata “la grande differenza”, dal momento che, a seconda delle aree geografiche e della disponibilità economica, la vita si è allungata in modo disomogeneo. Nei Paesi più ricchi si vive più a lungo e, sostiene Johnson, si vivrà sempre di più.

È una sorta di legge di Moore della sanità. Le proiezioni (e qui entra in gioco il transumanesimo) puntano a età bibliche: si arriverà a vivere 160 anni, o forse anche di più. Questo, come è intuibile, creerà una ulteriore disuguaglianza tra chi avrà i mezzi per ottenere questa longevità prolungata e tutti gli altri. Ma di fronte a questa prospettiva, chi non desidererebbe poter vivere più a lungo?

Qualcuno c’è. E sono i protagonisti del secondo libro citato dall’articolo, “The Inevitable: Dispatches on the Right to Die”, di Katie Engelhart, che affronta un tema complicato e delicato insieme: il diritto a scegliere come morire.

Lo fa da un punto di vista giornalistico, cioè seguendo le storie di chi si attrezza a essere pronto quando verrà il momento (quello che decide lui) e le organizzazioni, alcune clandestine, che li consigliano. «Sarebbe difficile esagerare il numero delle persone che mi hanno detto che desiderano soltanto avere gli stessi diritti dei loro amati cani, cioè essere tolti dalla sofferenza quando è il momento giusto».

Sono vicende di anziani e malati in ansia per il loro futuro prossimo. Vogliono da un lato conservare un ruolo, una libertà di scelta, mentre dall’altro sono preoccupate all’idea di perdere il controllo della propria vita.

Del resto, con l’allungarsi della vita, si è allungata anche la vecchiaia, con le sue conseguenze e caratteristiche: indebolimento del fisico, perdita di lucidità (se non proprio demenza senile) e più sofferenza. «L’aumento dell’aspettativa di vita», scrive Engelhart, «è stato accompagnato da un numero maggiore di anni di disabilità». Una condizione che molte persone non vogliono vivere.

Al momento, le leggi non mostrano aperture al riguardo. In generale negli Stati Uniti, per il cosiddetto suicidio assistito, sono previsti alcuni criteri molto rigidi: una malattia terminale e la capacità fisica di poter assumere il farmaco in modo autonomo. In alcuni Paesi europei, come Olanda e Belgio, la situazione è già molto diversa e più aperta.

Si discute sul ruolo dei dottori, sulle responsabilità e sul concetto di “momento giusto”. Ma in gioco c’è anche la natura stessa della medicina, che non è più chiamata ad allungare la vita bensì a interromperla, in nome della riduzione della sofferenza. Ma su questo aspetto ci sono ancora discussioni e cautele.

Il tema del resto è complesso, intervengono diverse questioni e sensibilità. Engelhart fa notare che a spingere molti anziani sono situazioni al limite, malattie gravi, degenerazioni fisiche e mentali. Paura, soprattutto, insieme alla pena di immaginarsi privi di controllo e lucidità.

Tra le parole che vengono pronunciate di più c’è “razionalità”, riferita a una scelta ponderata, meditata, cui viene affidata la conclusione della propria vita, ma anche “dignità”, dove si intendono le condizioni quotidiane, il bisogno di assistenza fisica, la consapevolezza di non potersi permettere una sistemazione.

Il problema economico, fa notare Engelhart, ricorre spesso nei casi di decisione «razionale» e lascia intuire che, anche in questo aspetto giochino un ruolo le differenze e le disparità. Se non si avesse il timore di finire in povertà, spiegano alcune donne intervistate nel libro, forse si farebbero scelte diverse.

Resta il punto che, come aveva intuito John Gaunt nel XVII secolo, il modo in cui si muore – forse più di quello in cui si vive – dice molto della società in cui si sta. E un mondo che punta ad allungare l’esistenza umana oltre il secolo e mezzo, senza curarsi troppo delle condizioni generali in cui la si trascorre, forse sta sbagliando qualcosa.