Una volta, a chi gli chiese perché non avesse mai diretto un museo, Achille Bonito Oliva rispose con la solita battuta fulminea: «il museo sono io». E in effetti non gli si può dar torto, perché c’è molta differenza tra chi lavora in un’istituzione culturale dovendo affrontare ogni giorno noiose questioni politiche e amministrative, mancanza di fondi, personale, sindacati ecc.. e chi può permettersi il lusso di esercitare il ruolo da battitore libero ben pagato (ma questo vale per lui), mordi, fuggi e ricomincia da un’altra parte.
Parrebbe una contraddizione in termini la museificazione in vita (il solo caso a mia memoria, anche ad Harald Szeeman fu dedicata una mostra, però abbondantemente postuma) di ABO al Castello di Rivoli. Sul palcoscenico del Theatron bonitoliviano non c’è l’artista – per una volta damigella d’onore al lauto banchetto – ma il critico con tutto quel portato di egocentrismo, narcisismo, esibizionismo, totoismo guittesco cavalcato in oltre mezzo secolo di carriera, materiale oggi più per Dagospia che per Artforum. Certo è che ABO uno spazio significativo nella storia dell’arte italiana se lo è ricavato per almeno due invenzioni: Contemporanea, la mostra ideata e allestita nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese prima della sua apertura alle automobili. Era il 1973, non esistevano gli spazi per l’arte sperimentale e le categorie linguistiche non si discostavano dalla tradizione accademica.
ABO invece inventò un festival trasversale che includesse tutte le esperienze creative post Sessantotto: arte, teatro, performance, danza, cinema, con Christo che impacchettava le Mura Aureliane. Appena sei anni dopo, un nuovo mondo. Gli anni ’70 si portarono via il fervore ideologico e l’emergenza sociale, stava arrivando il postmoderno e un rapporto finalmente pacificato con la storia. Dell’Italia si tornava a parlare in termini lusinghieri per la moda, il design, la cucina. Aspettando la vittoria ai mondiali della Nazionale di Enzo Bearzot con sei juventini in campo, fu la pittura a concorrere al successo del Made in Italy, anche di più di quanto fosse accaduto negli anni ‘60.
ABO nel 1979 inventò la Transavanguardia, un gruppo di cinque giovani pittori nati nel centro-sud con base a Roma (tranne Nicola De Maria che viveva a Torino), meno nutrito dell’Arte Povera che ne rappresentava sia la rottura sia la continuità, una netta differenza linguistica e una stessa intenzione strategica. Al posto delle installazioni c’erano i quadri, invece dell’internazionalismo il Genius Loci. A livello di intuizione immediata, ha avuto ragione ABO perché l’Italia funziona bene quando parla di sé, non quando imita gli altri, anche se la storia gli ha dato contro.
Per ottenere un successo mediatico e una certa popolarità, la critica d’arte da sola non basta. Germano Celant era più potente di lui ma nessuno lo avrebbe riconosciuto al bar. ABO capì che accanto alla teoria bisognava andare in tv, posare nudo su Frigidaire, ricevere gli “artieri” (così definisce gli aspiranti artisti, con sufficiente denaro da spendere) al suo tavolo fisso al Bar della Pace finché c’era il povero Bartolo Cuomo morto misteriosamente, ospite d’onore nelle serate mondane e trasgressive, atteso quanto una soubrette come Tinì Cansino, un politico come Gianni De Michelis, un Andy Warhol di via Giulia. I privilegi della fama più che del potere gli hanno permesso di girare sempre senza portafoglio («qui alla Pace bevi quello che vuoi, tanto non pago», mi ribadì un pomeriggio), di pretendere l’autista per spostarsi perché, come Bettino Craxi, non ha mai voluto prendere la patente.
Con Vittorio Sgarbi il critico d’arte è diventato un mestiere conosciuto ai più, ma ABO ne ha anticipato la figura pubblica restando all’interno della propria disciplina ed evitando la discesa negli inferi del trash televisivo. Gli anni ’80 sono stati il suo regno, nel 1993 ha diretto la Biennale di Venezia, un’edizione che ricordo con entusiasmo. Poi è accaduto qualcosa che neppure il suo straordinario intuito ha saputo prevedere: l’arte si è tuffata nella globalizzazione, ha scelto la strada dell’internazionalità ripudiando il Genius Loci perché saper parlare in inglese è più importante di aver studiato Fluxus.
Da allora la forchetta tra i due eterni rivali, Germano Celant e Achille Bonito Oliva, si è allargata: nella maturità il genovese ha curato mostre sempre più importanti, ABO ha vissuto di rendita sui fasti passati che ancora oggi peraltro gli valgono l’interesse di Gucci nell’utilizzarlo come testimonial e tutto questo ha una logica perché la moda delle grandi firme è espressione del ‘900 mentre oggi, proprio come l’arte, il dibattito si sta spostando sull’etica, sull’impatto ambientale, sull’utilizzo di materiali virtuosi. Ciò non toglie che l’immagine di un teatro, tra melodramma e commedia, manierismo e spettacolo popolare, genio e volgarità resti intrinsecamente italiana. Ci piace e ce la portiamo dentro. Poi vallo a spiegare al resto del mondo, ma in fondo ce ne è mai importato davvero?