Trentenne, donna, socialdemocratica ed europeista: il volto della nuova generazione di bosniaci che che prova a lasciarsi definitivamente alle spalle gli anni ‘90 è quello della trentanovesima sindaca di Sarajevo, Benjamina Karić.
L’elezione di Karić lo scorso aprile è arrivata sull’onda lunga di quella tornata di elezioni amministrative che ha sancito la crisi dei partiti etnici in molte delle principali città della Bosnia Erzegovina lo scorso novembre. I partiti etnici – l’Sda bosgnacco musulmano, l’Hdz croato e l’Sds serbo – sono tradizionalmente le forze egemoniche che si spartiscono seggi, influenza e risorse, mantenendo assieme – nonostante l’apparente ostilità – il Paese nello stallo in cui vegeta dalla fine del conflitto 1992-1995.
Favorite dall’etnicizzazione che informa il sistema istituzionale bosniaco – gli accordi di Dayton – negli ultimi venticinque anni queste tre forze politiche hanno allestito sistemi clientelari che vengono irrorati grazie alla depredazione dei fondi pubblici. Il principale partito trans-nazionale, l’Sdp, di cui Karić è esponente dal 2009, ha faticato a imporsi come un’alternativa appetibile, anche a causa di scandali di corruzione che ne hanno minato la credibilità.
In questo contesto l’ascesa di Benjamina Karić non sarà una rivoluzione – l’Sdp ha già governato Sarajevo in più occasioni – ma certamente è un netto segnale di discontinuità.
Primo, per l’età. La Bosnia è un Paese in grave crisi demografica, incapace di dare prospettive ai propri giovani: secondo Eurostat, quasi due bosniaci su cinque nella fascia di età 15-24 non hanno un lavoro. Peggio solo il Kosovo (tasso di disoccupazione giovanile: 55,4%). Da qui al 2050 la Bosnia potrebbe perdere il 18,2% della propria popolazione.
Nata nel 1991, Karić, di formazione giurista ed ex assistente universitaria negli atenei di Travnik e Kiseljak, rappresenta quindi in sé stessa quella fetta di giovani bosniaci ormai stanca di dover emigrare all’estero per tirare a campare.
Il fatto che nella stessa tornata elettorale sia stato eletto sindaco di Banja Luka, la capitale della Repubblica serba – la metà a maggioranza serba del Paese – Draško Stanivuković (classe ‘93), ha galvanizzato il segmento più giovane della società bosniaca, che si è visto presentare – dopo decenni di emarginazione – un esempio reale di cambiamento. Che le due città principali del Paese siano amministrate da personalità nuove, non direttamente compromesse con gli eventi bellici degli anni ‘90 come la gran parte della classe dirigente che oggi ancora governa la Bosnia, è una novità assoluta. L’incontro tra Karić e Stanivuković lo scorso mese a Banja Luka ha dunque fatto notizia: l’ultimo era avvenuto 27 anni fa.
Secondo, per il genere. La società bosniaca è ancora molto patriarcale, conservatrice e tradizionalista, tanto che un articolo del 2016 di OpenDemocracy si chiedeva se la Bosnia fosse il posto peggiore in cui essere una donna. Ma la situazione in termini di parità di genere sta lentamente migliorando: secondo l’ultimo Gender Inequality Index pubblicato dall’Undp (2020), la repubblica post-jugoslava è risultata 38° su 181 Paesi censiti. Quindi addirittura meglio di alcuni Stati membri dell’Unione europea, come Slovacchia (45°) e Ungheria (51°).
Un dato da prendere con cautela, ma che suggerisce che la popolazione femminile bosniaca – anche grazie al contributo delle miriadi di progetti internazionali e dei fondi europei stanziati per questo scopo – stia finalmente riuscendo a migliorare la propria condizione.
Certo, Sarajevo non è la Bosnia e già nel 2005 era stata amministrata da una donna, Semiha Borovac. Ma Karić è anche la testimone di questo passo avanti.
Terzo, per la convinta fede europeista. Nel suo discorso inaugurale, la nuova sindaca, che parla fluentemente tedesco, ha affermato: «Non riconosco né sostengo divisioni. Nel cuore della nostra città esistono da secoli moschee, sinagoghe, chiese cattoliche e ortodosse. Il rispetto per le fedi e le tradizioni degli altri è iscritto nella nostra essenza. Siamo parte della famiglia europea: Sarajevo è una città amante della libertà, europea, cosmopolita e olimpica».
Saranno gli elettori a valutare se questi valori si tradurranno in iniziative concrete durante il suo mandato, ma almeno a livello di retoriche Karić sembra decisa a smarcarsi dalle logiche etnocentriche che la maggior parte dei leader bosniaci continua a propugnare.
In conclusione, una coincidenza simbolica ha segnato l’inizio del suo mandato. Karić è entrata in carica l’8 aprile scorso. Giorno del suo trentesimo compleanno ma non solo: nello stesso giorno moriva il generale Jovan Divjak, il simbolo della resistenza multietnica di Sarajevo.
In questo iconico passaggio di testimone, la sindaca ha simbolicamente ricevuto in eredità quella tradizione di tolleranza, rispetto e apertura difesa dal generale Divjak durante gli oltre mille giorni di assedio subiti dalla città nella guerra 1992-1995.