Da molti anni ormai gli oppositori del capitalismo aspettano la grande crisi che porterà al suo crollo finale. Karl Marx pensava di aver scoperto varie leggi economiche, come la «caduta tendenziale del saggio di profitto» e «l’impoverimento relativo del proletariato». Per gli anticapitalisti, la prospettiva della crisi è sempre stata soprattutto una speranza, la speranza che il capitalismo sarebbe finalmente (e per sempre) crollato. Ma tale speranza è continuamente stata delusa. Si può dire che gli anticapitalisti venerino il culto del giorno del giudizio, annunciando imperterriti nuove date per l’apocalisse finale.
Con la crisi finanziaria globale del 2008, gli anticapitalisti hanno pensato fosse arrivata la tanto attesa fine del capitalismo, ma quando anche questa non si è materializzata, han dovuto aspettare la crisi da coronavirus come nuova opportunità per un radicale cambiamento del sistema economico. Durante i primi giorni della pandemia, molti intellettuali hanno proclamato che questa nuova crisi piantava il chiodo finale nella bara del capitalismo e avrebbe finalmente portato a una riorganizzazione radicale della società.
Un articolo del sociologo britannico William Davies sul Guardian recava il seguente titolo: «L’ultima crisi globale non ha cambiato il mondo. Ma questa potrebbe farlo». Nell’articolo, Davies poi scriveva: «Possiamo già identificare in quale modo la crisi del 2020 e le sue conseguenze differiranno dalla crisi degli anni ’70. In primo luogo, mentre la sua trasmissione ha seguito le vie del capitalismo globale – viaggi d’affari, turismo, commercio – la sua causa principale è esterna all’economia. Il grado di devastazione che si diffonderà sarà prodotto dalle caratteristiche su cui si basa il capitalismo globale, che quasi nessun economista mette in discussione: alti livelli di connessioni globali e la dipendenza della maggior parte delle persone dal mercato del lavoro.
Queste non sono le caratteristiche di un particolare paradigma di politica economica, così come lo erano i tassi di cambio fissi e la contrattazione collettiva per il keynesismo. Sono caratteristiche del capitalismo in quanto tale». Proseguiva poi con questa speranza: «Ma possiamo essere sicuri che, così come si tratta di una crisi autenticamente globale, avverrà anche una svolta globale. Ci saranno conseguenze psicologiche, fisiche e finanziarie dolorose nell’immediato futuro. Ma una crisi di questa portata non sarà mai veramente risolta finché le basi della nostra vita sociale ed economica non saranno state ricostruite».
Una nota anticapitalista tedesca, Ulrike Herrmann, ha scritto un articolo sotto il titolo: «Il tramonto del neoliberismo. La fine di una teoria». Nel suo articolo affermava che «la crisi da Covid-19 ha certamente i suoi vantaggi». La sua speranza era che il coronavirus potesse «seppellire l’ideologia neoliberale» che, secondo lei, ha dominato il mondo occidentale dal 1980 in poi. La crisi sanitaria, sosteneva la Herrmann, dimostra che non c’è «nessuna alternativa alla solidarietà… cioè allo Stato». Com’è noto, per gli anticapitalisti i termini “solidarietà” e “Stato” sono intercambiabili. «Questa lezione», scriveva la Herrmann, «avrebbe potuto essere imparata dopo la crisi finanziaria del 2008, ma in quel momento i neoliberali sono riusciti ancora una volta a salvare le loro teorie trite e ritrite […] ora sarà diverso. È evidente a tutti che il “mercato” non può scongiurare gli impatti economici di un virus. Ecco perché tutti chiedono l’intervento dello Stato».
L’economista francese Thomas Piketty, parlando durante la presentazione di un suo nuovo libro in cui chiede ancora una volta la ridistribuzione radicale della ricchezza, ha detto che la crisi da Coronavirus ha dimostrato che i governi possono fare cambiamenti drastici nelle loro politiche economiche e che questo potrebbe innescare un cambiamento, prima di tutto, di coscienza. La crisi sta dimostrando ai governi quanto si possono mobilitare per regolare l’economia, ha detto Piketty.
Un’altra voce critica della globalizzazione, la canadese Naomi Klein, ha visto nell’attuale crisi un’opportunità per un «salto evolutivo»: «In effetti, è possibile che la crisi catalizzi una specie di salto evolutivo […] O perdiamo un sacco di terreno in questa sfida, veniamo spennati dalle élite e ne paghiamo il prezzo per decenni, oppure otteniamo vittorie progressive che sembravano impossibili solo poche settimane prima. Non è il momento di perdere il coraggio. Il futuro sarà determinato da chi è disposto a lottare di più per le sue idee».
Nel caso della crisi da coronavirus, è ovvio che si tratta di un evento esogeno, che non ha nulla a che vedere con la struttura del sistema economico capitalista. L’economista Joseph Schumpeter distingueva due tipi di crisi, quelle le cui cause sono esterne alla sfera dell’attività economica e quelle le cui cause sorgono all’interno di questa stessa sfera.
Ci sono sempre state epidemie e pandemie, e anche se la globalizzazione ha fatto sì che la pandemia abbia potuto diffondersi rapidamente, è stato in definitiva il capitalismo a garantire che, così presto dopo l’inizio della crisi, fossero pronte le contromisure per affrontarla e superarla: dalle mascherine protettive ai test e tamponi, fino ai vaccini sviluppati dalle disprezzate case farmaceutiche multinazionali. Non bisogna però neppure essere troppo ottimisti: non c’è nessuna garanzia che il capitalismo sopravviva. Se dovesse crollare, questo non avverrà per le sue presunte debolezze economiche intrinseche, ma per lo smarrimento, la viltà e l’opportunismo di una borghesia che non riesce a difenderlo risolutamente contro i suoi nemici.