Conviene non avventurarsi nei garage delle vecchie case di famiglia, potreste avere brutte sorprese: il Moleskine di un seguace di QAnon.
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Mio nipote Tony – Tony il taciturno, come lo chiamavano da ragazzino – era venuto a prendermi dall’avvocato. Stavamo viaggiando in autostrada, e come tutte le persone anziane ero nervoso. Intravidi l’ombra di un piccolo animale sulla mezzeria, e gridai: «Attento!»
«L’ho visto, signore, state tranquillo. È un armadillo. State a guardare», e sfiorandolo con la ruota anteriore sinistra lo fece schizzare via.
Ero allibito.
Tony mi raccontò che quello era uno dei passatempi tipici dei rednecks, il cosiddetto “salto dell’armadillo”. «Se ne trovano in continuazione sulle strade. Il gioco consiste nel riuscire a non farli morire». Sospirò. «È uno dei pochi divertimenti che ci sono rimasti, da queste parti…»
Poco dopo arrivammo a casa di mio cognato. Era ancora lì dove l’avevo lasciata, tanti anni prima: il maestoso viale d’ingresso con le querce che chiudevano il cielo a mo’ di ombrello, la veranda polverosa, la fontana di pietra – senza alcuno zampillo da chissà quanto tempo – e poi le grandi semisfere di rame dove gli schiavi, ai loro tempi, mescolavano la melassa dopo la raccolta della canna da zucchero, che i nostri antenati siciliani chiamavano “la zuccarata”.
Tony non mi chiamava per nome, ma “signore”, come si usa nel Sud, anche quando ci si rivolge al proprio padre.
«Fortuna che non l’hanno preso qui, signore» mi disse, dopo un lungo silenzio. «Ho fatto giusto in tempo a portare via un po’ di roba».
«Quale roba?» chiesi io.
«Armi, signore. Un arsenale. E poi materiale di propaganda, munizioni che bastavano per un esercito. Ho lasciato solo il laptop, così l’Fbi l’ha preso, ma almeno avevo cancellato le chat…»
Non mi era mai andato a genio, Tony. E anche in quel momento non si può dire che fossimo granché in confidenza, così evitai di chiedergli dove avesse nascosto quella roba. «Uhm» dissi. «Bravo, hai fatto bene. E dove teneva il tutto?»
«In garage, signore. Passava tutta la giornata là dentro…»
Così andammo in garage. Il pick-up Toyota era ancora lì, l’Fbi non l’aveva neanche guardato. «E per fortuna» disse Tony. «Mio padre ci trasportava i pacchi di munizioni, le Freedom Munitions, e poi i pezzi per assemblare gli AR-15».
«Ragazzo, mi stai dicendo che il marito di mia sorella, qui dentro, fabbricava fucili da guerra?»
«Be’, signore, in un certo senso sì. Però è legale, eh. Secondo la legge, l’unico pezzo dell’AR-15 su cui dev’essere stampigliato un numero di matricola è il lower receiver, il guscio inferiore. Ma questo avviene solo quando l’arma è stata montata per intero. Se un costruttore qualsiasi produce le parti di un lower receiver – dieci pezzi di acciaio sagomato che anche un bambino sarebbe in grado di assemblare –, ovviamente dopo averlo montato non è obbligato a stampigliarlo. E se a questo châssis un privato cittadino applica tutti gli altri pezzi di un fucile mitragliatore – la canna, il calcio, il grilletto –, che non sono tenuti ad avere alcuna registrazione o numero di matricola… be’, ecco l’AR-15 completo in un comodo kit. Credetemi, signore, è permesso dalla legge. Mio padre aveva un contatto con un certo Dimitri, che lavora nei gun show. Qualche volta veniva qui da lui. Trasportavano le armi in Florida; nessuno ferma una macchina se al volante c’è un avvocato che mostra il tesserino…»
«Tanto più se ha gli occhi azzurri e una bella barba grigia…»
Tony fece un mezzo sorriso; forse non era perduto per sempre…
Ormai era sera, mio nipote mi avrebbe accompagnato all’aeroporto la mattina presto. Ordinammo due pizze, e poco dopo arrivò un rider governato da un algoritmo, come ormai succede dappertutto (ripensai alle immagini di Wuhan all’inizio della pandemia: grandi strade deserte, e solo i rider delle consegne che le attraversavano). Cenammo in silenzio; la giornata ci aveva stancato, e poi nessuno dei due aveva troppa voglia di parlare.
Arrivammo all’aeroporto internazionale di Savannah dopo un breve viaggio in macchina. La mattina era splendida. Tony era silenzioso, ma prima di lasciarmi all’entrata infilò una mano nella tasca interna della giacca e tirò fuori un taccuino nero tenuto chiuso da un elastico, una specie di Moleskine.
Me lo consegnò: «Qui mio padre trascriveva tutte le chat di QAnon a cui prendeva parte nel suo garage; per fortuna sono riuscito a metterlo in salvo prima della perquisizione. Ho pensato anche di distruggerlo, ma lui non avrebbe voluto: ci tiene molto alle sue cose, non è un debole. Lo affido a voi, signore, magari potrebbe esservi utile per il vostro lavoro. Adesso vado, altrimenti finisce che mi becco una multa. Buon viaggio, e che Dio vi benedica per tutto quello che fate per noi…»
Ambiguo come sempre, Tony. E che ne sapeva, poi, del “mio lavoro”? Non c’era tempo per chiederglielo, così riposi il quadernetto nella tasca dell’impermeabile, senza avere alcuna idea dell’angoscia che mi avrebbe procurato…
È stato come entrare in una stanza buia e riconoscere, toccando superfici sconosciute, la forma dei mobili. Quella stanza non era altro che il mondo di QAnon del quale tutti stavano parlando, e su cui i potenti cervelli della New Orion accumulavano informazioni e memorie.
Q si nascondeva, disseminava “pillole di saggezza”, poi parlava come una Sibilla: un’invasione di cavallette in Nordafrica come si leggeva nella Bibbia, un blackout in Vaticano di cui solo gli affiliati della setta sembravano essere al corrente, grandi inondazioni in Bangladesh… e tutti questi disastri erano legati tra loro; erano segni che Q interpretava, per dire ai suoi seguaci di tenersi pronti, per il “gran giorno”, il giorno del risveglio.
Mio cognato aveva preso appunti, ma non si era limitato a questo, e su una chat protetta aveva rimesso in circolo quelle informazioni. Ognuno veniva raggiunto dalle parole di un altro; si percepivano apprensioni, paure, voci di donne e di uomini, accenti diversi.
«Direi che ci siamo…»
«Avete cominciato a fare scorta d’acqua?»
«Controllate il generatore…»
«Munizioni…»
«Tra poco riceverete istruzioni, su chi deve partire e chi deve restare…»
«Quando cominceranno le esecuzioni?»
«Il presidente lo comunicherà, ha una linea segreta che permette di mandare messaggi su tutti i cellulari. Annuncerà in contemporanea a tutto il mondo l’istituzione della legge marziale, la punizione dei traditori… Quando riceveremo il messaggio, sapremo che è giunto il momento.»
«Saremo avvertiti; seguite gli ordini, sapete cosa fare…»
Fin qui niente di eccezionale, a parte la spiacevole conferma che mio cognato, come si dice da quelle parti, era sceso parecchio nella tana del coniglio. Insomma, si era lasciato coinvolgere un po’ troppo: le armi, le munizioni, e poi quel Dimitri…
Ma c’era anche una parola che in quelle conversazioni compariva spesso – rope, che significa “corda” –, e lì per lì non riuscii a spiegarmi il perché.
Quando finalmente capii, mi prese lo sconforto, perché era un termine capace di tenere insieme tantissima gente, una cosa che ognuno di loro usava come se fosse una parola d’ordine. Nelle chat, su Facebook, e poi a Washington il 6 gennaio, la “corda” univa e legava persone apparentemente diverse: i semplici sostenitori trumpisti, i seguaci di QAnon, i membri delle milizie di suprematisti e neofascisti…
“Corda” era la parola chiave; e una volta tornato a New York, quando provai a inserirla nei sistemi della New Orion proprio come avrebbe fatto un cacciatore di replicanti, mi salì un brivido lungo la schiena.
Ricordate la scena, in Blade Runner?
RACHEL: Mi credi un replicante, vero? [mostra una fotografia] Guarda. Sono io con mia madre.
DECKARD: Sì? Ricordi, all’età di sei anni? Tu e tuo fratello entraste in un edificio vuoto per la finestra della cantina e… giocavate ai dottori. Lui ti mostrò il suo, e quando toccava a te ti spaventasti e fuggisti. Te lo ricordi? L’hai mai raccontato a nessuno? A tua madre, a Tyrell, a nessuno? Ricordi il ragno in quel cespuglio davanti alla tua finestra? Il corpo arancione, le zampe verdi? Lo guardasti fare la rete tutta l’estate, e un giorno ci vedesti un grosso uovo. L’uovo si schiuse…
RACHEL: … l’uovo si schiuse…
DECKARD: … e…
RACHEL: … e centinaia di ragnetti ne uscirono. E la divorarono.
DECKARD: Innesti. Non sono ricordi tuoi. Sono di qualcun altro. Della nipote di Tyrell, forse.
RACHEL: [piange]
Prendete ora le fotografie e le biografie degli uomini e delle donne che hanno dato l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021; e cominciate ad appuntarvi somiglianze e assenze.
Non c’è una sola persona dalla pelle scura. Non c’è un afroamericano.
Non c’è un ragazzo, uno scugnizzo, un Gavroche, un Balilla. In genere, in momenti come quello, dov’è il popolo a essere protagonista, ce ne sono: sono quelli che scattano, agili come gatti, sulle pareti degli edifici; sono quelli che sventolano bandiere, che muoiono sotto il fuoco delle mitragliatrici. In questo caso no, non ci sono ragazzi.
Perché? Perché i ragazzi, credo, sono più intelligenti dei loro genitori. Sono innocenti; i loro genitori invece no, e quello che fanno non lo fanno per loro, per il futuro dei loro figli. E così i figli non solo non hanno partecipato, ma sono stati i primi, il giorno seguente, a denunciarli alla polizia.
I ribelli hanno in media tra i quaranta e i sessant’anni. Sembra, da quanto si legge nelle loro biografie, che siano più o meno tutti, perlomeno dal punto di vista economico, dei falliti. Molti sono stati nell’esercito, nella marina, nell’aviazione, nella polizia, e sono andati a far la guerra in paesi lontani, da cui sono tornati sconfitti, umiliati, impauriti. Però là hanno imparato a masticare amaro, a obbedire, e continuano a farlo. Hanno membra pesanti, non sono allegri.
Una caratteristica tipicamente americana, però, ce l’hanno: la passione per l’abbigliamento, che di fronte allo strapotere del merchandising li porta a essere dei consumatori passivi. Ogni rivoluzione ha un vestiario che la contraddistingue, e questa sembra essere figlia dei cataloghi pubblicitari: sono arrivati vestiti da survivalisti, con indumenti tattici, scarponcini, ghette, ginocchiere, giubbotti antiproiettile, caschi, sottocaschi, teflon, tute mimetiche, occhiali aderenti, guanti, cuffie, auricolari, visori notturni, e poi, ovviamente, backpack, gusci per i cellulari, aste per i selfie, bevande energetiche… I Proud Boys sfoggiano polo di Fred Perry: si prendono molto sul serio, ma sono ridicoli, anzi tragici.
6 gennaio 2021. Dentro il Campidoglio, un manifestante imbraccia la bandiera confederata. Si profila di nuovo la schiavitù, nel futuro americano?
E poi, appunto, ci sono i cappi. Una delle prime cose che si premurano di fare è alzare una forca di legno a cui legarne uno. È il simbolo della giornata. È per Mike Pence, il traditore. Ne compaiono anche altri, il significato appare chiaro… Uno dei manifestanti ha portato con sé decine di manette di plastica, quelle con cui la polizia immobilizza le persone dopo l’arresto. Sembra uno che sa dove andare, e cosa fare. Dentro il Campidoglio, un altro grida: «Nancy… I’m back!», e sembra l’urlo di Jack Nicholson in Shining…
Fu allora, davanti allo schermo del mio laptop, che mi diedi una manata sulla fronte. Ma certo! Anche questa volta i database della New Orion ci avevano azzeccato. La corda, il Campidoglio… sono come i ragnetti di Rachel, un innesto di memoria! Quello cui avevamo assistito il 6 gennaio era la replica di una delle più sordide storie avvenute nella democrazia americana: un romanzo.
da “Cose che voi umani”, di Enrico Deaglio, illustrazioni di Felix Petruška, Marsilio, 2021, pagine 272, euro 14,00. In libreria dal 24 giugno