La prevalenza del bluffInstagram ha ucciso l’arte e ci ha lasciati soli con Damien Hirst

Alla contemporaneità è rimasta solo la megalomania di pseudo-scultori o l’esercito di influencer che non sanno fare niente ma immortalano la propria vita come se fosse un’avventura speciale

(AP Photo/Alastair Grant)

L’opera d’arte cui penso più spesso è “My Bed”, il letto di Tracey Emin ricreato nel 1998 e attualmente esposto a Londra, alla Tate. Non solo perché qualsivoglia mio letto è molto più disordinato e il fatto di non aver mai incontrato un Charles Saatchi (il collezionista multimilionario che fece di Emin una star del mondo dell’arte) mi pare davvero un’ingiustizia – per me, ma anche per il pubblico, che è stato privato dell’opera in divenire “Decenni di letti sfatti circondati da macerie di pizze a domicilio e Adelphi con sopra i cerchi dei bicchieri di vino malamente appoggiati”.

Ci penso spesso perché oggi Tracey Emin non diverrebbe mai una stimata artista che piace alla gente che piace, al massimo un’influencer con milioni di cuoricini: oggi, se hai una casa disordinata e sei esibizionista, metti le foto su Instagram, mica ti viene in mente di riprodurre il caos domestico in una galleria d’arte.

Oggi quel letto sfatto lo fotograferesti col telefono e lo pubblicheresti su Instagram, con sottofondo di Baglioni che implora «dai, rifai quel letto su»; i follower si affezionerebbero a te come si affezionano ai casi umani, e a quel punto potresti vender loro barrette dietetiche, macchine per il caffè, smalti per le unghie.

Oggi la tua installazione sei tu: lo eri anche ai tempi di Tracey Emin, certo (il letto sfatto, la tenda coi nomi degli uomini con cui aveva diviso il letto, compresi i nomi dei due feti abortiti), ma quando l’opera arrivava a essere in mostra potevi dimenticartene. Oggi, non puoi mai dimenticarti di te, se il tuo lavoro si svolge nell’ambito dell’economia del sé.

Instagram ha ucciso l’arte contemporanea assai più di quanto il video avesse ucciso le star della radio (nessuna morte è mai definitiva, e la punizione per aver creduto a quella canzone sono i podcast: espieremo sentendo gente che straparla per l’eternità).

Lo dico consapevole che la realtà mi stia smentendo: oggi apre la mostra di Damien Hirst (un altro cucciolo di Saatchi) alla Galleria Borghese, e quindi l’arte contemporanea è vivissima e anzi in questo allestimento dialoga con gli antichi (quelli che per dirsi artisti dovevano saper dipingere, disegnare, scolpire, insomma fare qualcosa: lo so, sono un relitto del Novecento, figuratevi che ancora credo che, per fare il cantautore, tu debba avere un vocabolario di più di ventisette parole).

Hirst non ha nessun complesso nell’essere esposto nella stessa sala in cui risiedono le sculture del Bernini, figuriamoci: ognuno era contemporaneo, ai suoi tempi, ha detto a Robinson che l’ha intervistato.

Poi ha detto anche «Caravaggio mi piace, per carità, ma poi è una questione di gusti» e «siamo sicuri che Bernini scolpisse interamente da sé?», e forse Instagram ha fatto anche questo: ci ha esposto a così tanta megalomania che ci lasciamo dire cose del genere senza prendere a coppini il tizio che le dice.

Sospetto che abbia ucciso anche la letteratura, vi dirò. Ogni volta che guardo le storie Instagram della figlia di Wanna Marchi, che annuncia il proprio essere diventata agente di Fabrizio Corona, o che si fa riprendere compiaciuta con un piatto con sopra un chilo di caviale, penso che, se negli anni Ottanta ci fosse stato Instagram, Bret Easton Ellis avrebbe aperto un chiringuito: cosa scrivi “Meno di zero” a fare, se la realtà ti supera in corsia d’emergenza con gli abbaglianti accesi?

La figlia di Wanna Marchi arringa contro chi piange sulla crisi, «La crisi è per i falliti», Hirst racconta d’essere sempre più multimilionario giacché «con la pandemia si è passato più tempo a casa, c’è stato bisogno di più quadri da mettere alle pareti»: trova le piccole differenze.

Certo arredarsi casa con lo spirito di patate è un problema, e in fondo Hirst quello fa: lo spiritoso. Come altro definire la testa del faraone «non identificato» che in realtà è un ritratto di Pharrell Williams, Kate Moss didascalizzata come un’egiziana del milletrecento avanti Cristo, e chissà che godimento se non capisci i riferimenti, se non sei fisionomista, se l’allestimento della mostra non ti aiuta mantenendo la finzione che quelle davvero siano statue egizie, e alla fine delle didascalie neppure c’è la faccetta che strizzi l’occhio al pubblico contemporaneo.

La prima volta che quest’ideuzza – la nave affondata da cui Hirst avrebbe recuperato le statue d’epoca – fu esposta, a Venezia quattro anni fa, il New York Times titolò «Ai collezionisti fregherà qualcosa?».

All’epoca, Hirst quel dettaglio della contemporaneità lo risolveva dicendo che il nostro rifiuto del presente viene dai governi ladri: è perché siamo governati da gente corrotta che preferiamo rifugiarci nel passato. Per quello, mica perché Bernini cavava il “Ratto di Proserpina” dal marmo e Hirst delega qualcuno dei suoi trecento operai (ora dice che si sono ridotti a cinquanta: sarà quella roba da falliti chiamata «crisi»?) a impagliare uno squalo.

L’unica domanda senza risposta, in questo tempo sbandato, è perché ogni bluff sia consentito e anzi incoraggiato, perché Hirst possa considerarsi meglio di Caravaggio, parolieri analfabeti possano considerarsi dello stesso mestiere di Guccini, ma l’unica che con lo spirito del tempo ci finisce in galera invece che in gloria sia Wanna Marchi.

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