Dieci anni dopoQuel referendum sull’acqua che diede la stura al populismo

Il voto del 12 e 13 giugno ha inquinato il dibattito pubblico, avvalorando l’idea che gli investimenti pubblici sono gratis e che il coinvolgimento del privato è sempre un male. Finora, non è mai stata fatta chiarezza sul reale contenuto dei quesiti e sull’ingannevolezza della retorica che li ha circondati e animati. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta

Esattamente dieci anni fa – il 12 e 13 giugno 2011 – la maggioranza assoluta degli italiani, e il 95% dei votanti, si esprimeva «contro la privatizzazione dell’acqua». L’importanza di quell’evento non può e non dovrebbe essere sottostimata perché molti dei problemi con cui ancora oggi facciamo i conti nascono in quel momento – o, almeno, in quella fase sono esplosi.

Anzitutto, raramente la distanza tra la retorica e la realtà è stata altrettanto grande. Gli italiani si sono espressi plebiscitariamente su quattro quesiti. Il primo, «contro la privatizzazione dell’acqua», ha in verità abrogato l’obbligo di mettere a gara la gestione dei servizi pubblici una volta arrivati a scadenza. Non è venuta meno la facoltà di indire delle gare: si è semplicemente consentito alla politica di mantenere e prorogare gli affidamenti in house e di trattare le municipalizzate alla stregua di veicoli fuori bilancio attraverso cui aggirare i vincoli del patto di stabilità interno. La Corte dei conti ha analizzato i bilanci 2017 di 4.326 di queste società (su un totale di 7.485), riscontrando perdite cumulate per oltre un miliardo di euro (di cui la metà riconducibile a 1.804 aziende a totale controllo pubblico).

Il secondo quesito, «contro i profitti sull’acqua», ha abrogato una norma che prevedeva una remunerazione del 7% sugli investimenti nell’ambito del servizio idrico integrato. Si trattava di una norma obsoleta, ma il denaro va sempre remunerato: che i soldi siano gratis era una pericolosa illusione. E infatti le riforme successive hanno assegnato all’Autorità per l’energia la regolazione economica del servizio idrico: e infatti oggi, come è ovvio, è previsto un adeguato ritorno sugli investimenti.

 

Il terzo quesito, «contro il nucleare», ha in verità abolito la norma che istituiva la strategia energetica nazionale: il futuro del nucleare era già finito mesi prima, quando il Governo aveva cancellato le disposizioni che, almeno in teoria, avrebbero consentito la ripresa nel nostro paese dell’utilizzo di quella tecnologia. Peraltro, in seguito sono state adottate due strategie energetiche nazionali (nel 2013 e nel 2017) pur senza appiglio normativo, visto che nessuna legge (o abrogazione di legge) può impedire al governo di emanare un documento programmatico.

Infine, il quarto quesito ha abrogato la disciplina del «legittimo impedimento» a comparire in udienza per i titolari di cariche istituzionali. Anche qui, non sembra che siano sortite grandi conseguenze.

Il problema è che, a fronte di modesti effetti materiali che al massimo hanno rafforzato lo status quo, il referendum ha letteralmente inquinato il dibattito pubblico, avvalorando l’idea che gli investimenti pubblici sono gratis, che il coinvolgimento del privato è sempre un male, e che nei referendum contano più le intenzioni (“no alla privatizzazione”) degli effetti (la politicizzazione dei servizi pubblici locali).

In questi dieci anni non c’è stato spazio per una operazione verità sul reale contenuto dei quesiti e sull’ingannevolezza della retorica che li ha circondati e animati e che fatto letteralmente deragliare il dibattito pubblico. Sarebbe sbagliato dire che il populismo è nato in quelle giornate di giugno, ma i referendum sull’acqua ne hanno rappresentato una poderosa prova di forza.

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