Quando ho saputo delle proteste per la scelta di mostrare il video dell’incidente alla funivia del Mottarone, lo confesso, la prima cosa che ho pensato – prima ancora di vederlo, prima ancora di sapere chi, dove e come lo avesse pubblicato – è stata: ben gli sta.
Avendo passato gli ultimi decenni a protestare contro il commercio di verbali e atti giudiziari da parte della stampa, e in particolare contro la pornografia delle intercettazioni, è stato per me un riflesso automatico. Mi sono immaginato scene atroci e primi piani sconvolgenti su telegiornali e home page di tutti i principali quotidiani, e ho pensato: se una volta tanto qualcuno se ne scandalizza, non può farci che bene.
Poi ho visto il video, e ho dovuto constatare come non fosse affatto vero che non aggiungesse nulla a quanto già si sapeva, come pure si era detto. Almeno per quanto mi riguarda, ha aggiunto eccome: perché nella mia mente si era fissata l’idea che, freni o non freni, forchettoni o non forchettoni, la causa della tragedia fosse semplicemente che si era spezzata la fune, e una funivia senza fune, evidentemente, non poteva reggere.
Il video mostra invece una dinamica molto diversa, cioè una molto diversa successione causale dei fatti: la cabina che è praticamente arrivata in cima, e che all’improvviso comincia a tornare indietro, ancora attaccata alla fune, a gran velocità. Forse non avrebbe dovuto essere mostrato lo stesso, ma certo non posso dire che il video non abbia aggiunto nulla a quanto già sapessi, che non fosse una notizia e che non contenesse informazioni rilevanti.
Siccome però il meglio è nemico del buono, anche dopo averlo visto sarei stato comunque incline a pensare che ben gli stava, a chi l’aveva pubblicato. Perché, seppure questa volta la scelta era discutibile ma forse giustificabile, sarebbe comunque servita di lezione per tutte le settecentomila volte precedenti, nella speranza magari di risparmiarci così almeno alcune delle settecentomila future.
Ero deciso insomma a non occuparmi in alcun modo della questione, quando ho letto il comunicato indignato della procura di Verbania. Perché sì, il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, ha ritenuto di emettere un comunicato sulla vicenda, per dire che le immagini «risultavano depositate, unitamente a tutti gli atti di indagine, all’atto della richiesta di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare, con diritto degli indagati e dei rispettivi difensori di prenderne visione ed estrarne copia, diritti ampiamente esercitati».
Per ricordare che «si tratta, tuttavia, di immagini di cui, ai sensi dell’art. 114 comma 2 c.p.p., è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari».
E per stigmatizzare con dure parole «la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità» (segue un altro paragrafo analogo in cui si stigmatizza ulteriormente «l’indiscriminata divulgazione», insensibile al dolore dei famigliari).
La lettura del comunicato della procura e delle numerose proteste venute da tanti colleghi giornalisti mi hanno dunque convinto dell’utilità di un breve promemoria, che spero possa contribuire per il futuro – non ci spero affatto, non sono così scemo, è ovviamente una formula retorica – a un dibattito più sereno, maturo, equilibrato e meno schizofrenico su questi temi.
Tanto per cominciare vorrei ricordare che l’art. 114 comma 2 c.p.p. citato nel comunicato – come qualunque altro articolo, comma o postilla di qualsiasi legge italiana imponga di non pubblicare atti giudiziari, sia pure non coperti da segreto – è senza dubbio la norma più violata nella storia della legislazione mondiale dai tempi del codice di Hammurabi, e sapete da chi? Da giudici, giornalisti ed editori (che nel caso peggiore se la cavano con un’ammenda da due soldi, grazie al fatto che qualunque tentativo di rendere le norme più stringenti è sempre stato travolto dalla mobilitazione di magistrati e giornalisti contro il «bavaglio», con partiti di sinistra al seguito, purtroppo).
Ma soprattutto vorrei segnalare che, se le immagini della funivia che torna improvvisamente indietro pongono comunque un grosso problema di sensibilità, gigantesco è il problema posto – per la libertà e i diritti di ciascuno di noi – dall’abitudine assai diffusa, e non altrettanto criticata, di pubblicare ampi stralci degli interrogatori resi dagli indagati. Problema ancor più che grave quando si tratta di persone in custodia cautelare, cioè sbattute in galera senza processo, le cui dichiarazioni appaiono sui giornali assai spesso manipolate, e precisamente nel modo più favorevole all’accusa, a giustificazione della loro preventiva incarcerazione e in modo da influenzare pesantemente lo stesso iter processuale.
In altre parole, da un giorno all’altro liberi cittadini (presunti innocenti) si ritrovano in carcere, e scoprono dai giornali di avere pure confessato. Al punto che Simone Uggetti, l’ex sindaco di Lodi sbattuto in galera per il modo in cui aveva fatto scrivere un bando da cinquemila euro, senza essere nemmeno accusato di aver preso per sé o fatto guadagnare illecitamente ad altri un solo centesimo, ancora oggi, dopo essere stato assolto perché il fatto non sussiste – cioè: una volta accertato che non sussisteva nemmeno quel fatto microscopico di cui era accusato – deve sentirsi ripetere che sarà pure stato assolto, però intanto aveva confessato, perché così avevano scritto i giornali.
Siccome di episodi del genere continuano ad accaderne parecchi, sarebbe bene che tutti – giornalisti, magistrati e semplici twittatori – indirizzassimo la nostra indignazione anche verso i casi che interpellano direttamente le nostre scelte e i nostri comportamenti, specialmente laddove è ancora possibile evitare un’ingiustizia o un ulteriore indebito carico di sofferenze.