«Noi abbiamo una squadra fortissima», ha detto Giorgia Meloni in una delle duemila interviste di questi giorni. Non è vero, naturalmente. Fratelli d’Italia non ha nessuno forte. Non ha dirigenti popolari, competenti, colti, esperti (e ci scusi Guido Crosetto, mosca bianca del gruppo). Infatti stavolta non ha uno straccio di candidato a sindaco in nessuna delle grandi città dove si voterà a ottobre. Improvvisamente hanno scoperto le virtù della società civile, FdI e Lega cioè i due partiti più partitisti del sistema politico.
A Roma, la Meloni è costretta a puntare sull’avvocato Enrico Michetti, uno appunto fuori dalla politica, e nemmeno è detto che alla fine sarà il prescelto. Anche la Lega, che pure vanta una lunga storia di amministrazione locale, in vari casi anche di buona amministrazione, ha difficoltà a trovare candidati. Forza Italia non è pervenuta. Insomma, la destra si trova nella strana situazione di avere due leader forti e molto popolari, Meloni e Salvini, alla guida di due carovane senza eroi. Senza gente che sappia governare la cosa pubblica.
Il dato è evidentissimo, come detto, per FdI e meno per la Lega (almeno al Nord), ma persino al livello del governo centrale in questi primi mesi non è che Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia abbiano brillato molto (a differenza dei tre ministri di Forza Italia Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Renato Brunetta).
Come nei negativi delle fotografie, il centrosinistra è l’esatto contrario. Senza leader particolarmente smaglianti: dopo un avvio interessante, Enrico Letta già vive qualche difficoltà all’interno del suo partito e forse anche nell’opinione pubblica, appare come una ottima persona che non ha però ancora trovato un filo razionale e coerente – e il concetto viene declinato dai suoi critici interni con espressioni ben più colorite che qui traduciamo con un «Letta fa errori su errori»; mentre non si sa bene di che leader parliamo quando parliamo del leader del Movimento 5 stelle, se del Giuseppe Conte eterno aspirante al ruolo o di Luigi Di Maio eterno capo politico di fatto, con il risultato che il Movimento non ha una guida riconoscibile da mesi. Quanto a Roberto Speranza, molto su nel gradimento dell’opinione pubblica, semplicemente non è percepito come un leader politico ma come l’onesto ministro della Salute nella fase più spaventosa di un’emergenza sanitaria in cui ha avuto luci e ombre (e queste sono ore di ombra a causa della discutibile indicazione del non più di quattro persone a tavola).
Eppure la sinistra (diciamo meglio, il Partito democratico), esprime molti bravi amministratori un po’ in tutto il Paese, candida sindaci competitivi, vanta assessori e consiglieri in genere capaci: è questo uno dei pochi frutti che maturano ancora sui vecchi tronchi dei partiti genitori, il Pci, la sinistra Dc, in qualche caso i socialisti. Il meccanismo tutto sommato regge, anche se difficilmente risplende.
L’effetto di questa doppia fotografia – la destra ha leader ma non personale di governo, la sinistra l’esatto contrario – forse spiega perché le previsioni sulle amministrative siano a favore di quest’ultima mentre quelle sulle politiche a favore della prima.
Sulla carta, a oggi, il centrosinistra nelle sue varie forme potrebbe vincere 5 a 0 (prendere cioè Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli), il che ovviamente darebbe notevole ossigeno a Enrico Letta e agli altri partecipanti alla festa. Ma stante la debolezza generale dei suoi leader nazionali è possibile che un esito positivo alle amministrative non influenzi minimamente il risultato nazionale, per il quale invece a destra corrono due cavalli in lotta fra di loro ma entrambi forti e trainanti.
È un discorso, se ci si pensa bene, che dà ragione a quanti, ad esempio Giuliano Ferrara, hanno scritto che Meloni e Salvini dovrebbero candidarsi a sindaco a Roma e Milano, due città dove potrebbero vincere (soprattutto Giorgia nella Capitale), e dove invece sono rassegnati a perdere perché sanno di non disporre di una classe dirigente degna di questo nome. Ma, come si sa, in entrambi i campioni della destra prevale l’ambizione nazionale nella certezza di vincere le elezioni politiche. E al momento è difficile dargli torto.