Fino a tempi recenti la Cina sembrava aver identificato i due porti italiani di Genova e Trieste come due scali cruciali per le nuove vie della seta, il faraonico progetto infrastrutturale con cui Pechino mira a integrare e interconnettere l’Eurasia sul piano commerciale – in inglese Belt and Road Initiative (BRI).
L’Italia aveva in un primo momento aderito senza remore particolari all’iniziativa cinese, siglando il Memorandum of Understanding (MoU) nel marzo 2019, gli Usa e gli altri alleati avevano presto espresso preoccupazione, invitando Roma a non approcciare la BRI come una collaborazione economica tra le altre, ma come un progetto di tenore geopolitico, gravido per gli aderenti di conseguenze rilevanti e trasversali.
Washington, in breve, aveva letto quella firma come il primo tassello di un domino che avrebbe portato l’Italia a scivolare, inconsapevolmente, nel “campo” cinese, specialmente poiché il MoU prefigurava anche la stipula di accordi ad hoc tra l’azienda cinese China Communications Construction Company (CCCC) e l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale e l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale, che gestiscono i porti di Genova e Trieste. Ovvero, due infrastrutture strategiche in ottica italiana, Ue e Nato.
Queste mosse avevano acceso i riflettori internazionali sul nostro paese, il primo membro della Nato e del G7 a sottoscrivere ufficialmente un’intesa ingombrante come il MoU e a non limitarsi a stringere lucrosi accordi commerciali coi cinesi, come invece i partner più importanti, Germania e Francia.
A due anni da quel frangente così decisivo, l’analista Francesca Ghiretti (IAI) ha pubblicato un rapporto dove analizza i concreti rischi che l’Italia, e i suoi due maggiori porti, avrebbero concretamente corso aumentando l’interazione con la Cina.
Il report si apre sottolineando come i porti e le infrastrutture marittime siano capisaldi della BRI, funzionali al tentativo cinese di penetrare i mercati stranieri e acquisire un maggiore controllo delle rotte commerciali. Pertanto, gli accordi che riguardano i porti tendono spesso a finire al centro dei dibattiti pubblici suscitati da un’operazione controversa quanto ambiziosa come la BRI.
Nel caso di Genova e Trieste, l’arrivo dei cinesi era stato presentato – e vissuto dalla cittadinanza – come un’occasione per recuperare terreno sui concorrenti nordeuropei.
Il fatto che i porti dell’Europa settentrionale, come Rotterdam, Anversa e Amburgo, surclassino i rivali mediterranei è riconosciuto da decenni. I porti con accesso diretto all’Oceano Atlantico sono inoltre meglio attrezzati ad approfittare dell’imminente apertura della rotta artica, causato dallo scioglimento dei ghiacciai, uno scenario che rivoluzionerà il mondo dello shipping e aumenterà verosimilmente il divario tra gli scali del Nord e quelli del Sud.
Sebbene nessuno dei secondi figuri nella top ten dei porti più grandi per volume di merci movimentate, negli ultimi anni sono emersi due fattori che ne hanno aumentato l’attrattività: l’allargamento del Canale di Suez, che ha incrementato il volume del commercio in entrata e in uscita dal Mediterraneo, e gli investimenti cinesi. Ghiretti sottolinea che proprio nel 2016, l’anno in cui è stato completato l’allargamento del Canale, la compagnia cinese China Ocean Shipping Company (COSCO) ha acquisito il 51% della proprietà del porto del Pireo, da allora considerato come il porto cinese in Europa par excellence e dunque la testa di ponte che dovrebbe facilitare la conquista cinese dei porti mediterranei.
I più critici dell’azione cinese sostengono infatti che Pechino stia investendo con un approccio strategico in queste infrastrutture, sfruttandone le difficoltà economiche che ne hanno impedito lo sviluppo e che li hanno condannati a subire la maggiore competitività dei concorrenti. Con queste manovre, che le garantiscono un vantaggio commerciale e quindi potenzialmente politico rispetto agli altri Stati, la Cina punterebbe allora ad assicurarsi il pieno controllo della via della seta marittima.
Tuttavia, secondo Ghiretti, nonostante l’innegabile valore simbolico, il MoU sottoscritto nel marzo del 2019 era poco più che una dichiarazione di intenti. Che, a distanza di oltre due anni, ha prodotto molti risultati scarsi.
L’autrice enfatizza anche come né l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale né l’omologa triestina abbiano spalancato le porte agli investimenti cinesi senza soppesare con cura le possibili conseguenze, come paventato da alcuni osservatori. Entrambi questi soggetti hanno ancorato la propria azione nel vigente sistema giuridico che regola l’attività delle autorità portuali e hanno circoscritto la presenza cinese ad ambiti specifici.
Essi, inoltre, non hanno né l’intenzione né la possibilità giuridica di cedere quote della proprietà dei porti che gestiscono. Riconoscendo l’importanza di diversificare, le due autorità interagiscono con uno spettro di investitori molto variegato, dove la CCCC è solo una dei tanti partner, cui non spetta alcun trattamento speciale, tant’è che ha anche perso la gara per la costruzione di un nuovo frangiflutti al largo del porto ligure. Gli altri investitori non sono stati scoraggiati a operare a Trieste e Genova dal minacciato avvento dei cinesi, come dimostrato dallo sbarco dell’amburghese HHLA nello scalo giuliano lo scorso autunno.
Il MoU era visto da entrambi i contraenti come il primo gradino di una partnership di ampio respiro, che avrebbe significato per l’Italia il miglioramento della relazione con la Cina, una maggiore appetibilità del Belpaese per il capitale cinese e il varo di un canale preferenziale per facilitare l’accesso delle aziende italiane al mercato cinese. Per Pechino si è trattata di una sorta di stress test per predisporre un’eventuale scalata al comparto portuale europeo.
Una velleità che è stata però ridimensionata dall’effetto boomerang generato dal caso italiano. A fronte del quale, l’opinione pubblica italiana ed europea hanno maturato una maggiore consapevolezza della necessità di proteggere le proprie infrastrutture strategiche – gli “asset” nazionali – tramite, per esempio, il potenziamento di meccanismi come il “golden power”. In questo, conclude Ghiretti, resta centrale l’azione a livello comunitario: il quadro normativo Ue che regola gli investimenti diretti all’estero permette a Bruxelles e agli Stati membri di raccogliere informazioni su queste operazioni e di condividerle, rafforzando così la trasparenza del sistema e danneggiando indirettamente i cinesi.
Allo stesso tempo, la via più efficace per contrastare il primato degli investimenti di Pechino non passa dalla logica del diritto, bensì da quella dell’economia. Fin quando gli investitori cinesi avranno più risorse e competenze dei rivali europei, qualsiasi operatore commerciale – non solo i porti – continuerà a trovare i primi più attraenti dei secondi. It’s the economy, stupid.