Le primarie di BolognaLa lezione che il Pd dovrebbe trarre dalla sconfitta di Isabella Conti

La scelta della sindaca di San Lazzaro di candidarsi come riformista indipendente ha chiarito con forza quale fosse la posta in gioco: l’urgenza necessaria di un salto di qualità. Il capoluogo emiliano deve diventare il laboratorio della buona politica, ma non può farlo con la stessa classe dirigente di sempre

LaPresse

È opinione condivisa tra giornalisti e commentatori che le uniche primarie che si sono svolte in queste ultime settimane per scegliere i candidati di centrosinistra alle amministrative di ottobre siano state quelle di Bologna grazie alla scelta di Isabella Conti, sindaca di San Lazzaro, di candidarsi come riformista indipendente e di sfidare Matteo Lepore, il candidato “predestinato” e quasi imposto allo stesso Partito democratico, dall’establishment di potere che governa la città da almeno un ventennio: cooperative, sindacati, multiutility pubblico-private, centri accademico-professionali ben inseriti nei circuiti economici, di cui il Pd rappresenta e controlla al tempo stesso la sua proiezione politica. Le altre, a Roma e a Torino, sono state “fintarie” come acutamente le ha definite Mario Lavia, sul modello di quelle pugliesi dell’anno scorso: vuoti riti sempre meno sentiti anche dal famoso popolo del centrosinistra promossi per confermare il candidato scelto dalle oligarchie locali (che a Torino, non sono riuscite a fare nemmeno questo).

A Bologna Isabella Conti ha sparigliato il mazzo e la partita mettendo in campo una offerta politica nuova che puntava a raccogliere seppur all’interno del campo del centrosinistra, quella parte non piccola di elettorato democratico desideroso di superare i vincoli consociativi e conservatori che impediscono innovazione e modernizzazione indispensabili per il futuro della città. Nonostante i suoi elevati standard nella qualità della vita, nel sistema dei servizi, nell’offerta culturale, Bologna è una città da molti anni incapace di mettere in campo progetti di trasformazione strategica che recepiscano nelle dinamiche urbane, il suo fondamentale ruolo di perno del nuovo triangolo industriale – Milano-Bologna-Treviso/Verona – dell’Italia ormai stabilmente inserita nell’economia globale.

Questa collocazione che cambia quelle precedenti di semiperiferia del vecchio triangolo industriale Mi-To-Ge, o di punta di diamante dell’Italia dei distretti manifatturieri, richiederebbe di rimodellare la città in funzione delle necessità di questa sua nuova dimensione strutturale sul piano dei trasporti, dei sistemi sanitari, della formazione e soprattutto dell’integrazione metropolitana tra centro e periferie. Ma da troppo tempo la sfida di fare di Bologna una smart city della conoscenza, delle alte tecnologie, della sanità post-ospedaliera, della sostenibilità ambientale è stata sostanzialmente disattesa sia dalla giunta Cofferati, prima, che dalle due di Merola, poi, che si sono limitate a una manutenzione dell’esistente sotto l’urgenza di due eventi catastrofici come la crisi dei debiti sovrani e la pandemia. 

Ma la nuova fase postpandemica ha reso urgente il cambiamento, perché la quantità di risorse che confluiranno nei prossimi anni nei sistemi urbani rendono finalmente possibile abbattere le strozzature allo sviluppo della città sul piano dei trasporti, dei servizi ai cittadini, della scuola, persino della stessa Università, orgoglio e vanto della città.

La scelta di Isabella Conti di scendere in campo ha chiarito con forza quale fosse la posta politica effettiva delle primarie: non il politicismo dell’unità delle sinistre contro le destre di Salvini e Meloni, non l’applicazione al governo di Bologna del modello Giuseppe Conte-Goffredo Bettini della grande alleanza demopopulista, quanto piuttosto due visioni diverse del futuro della città, l’una che sente l’urgenza necessaria di un salto di qualità e di un cambio di passo, che ha spezzato perfino l’unità interna del Pd, l’altra che sotto mantello dei richiami sinistri delle sardine, dei centri sociali, delle minoranze radicalizzate “coraggiose” si appresta a governare gli equilibri esistenti, incrementandone le già forti pulsioni assistenzialistiche.

C’è una domanda di cambiamento che il Pd non raccoglie più
I risultati elettorali testimoniano due fenomeni solo apparentemente contraddittorie e che indagini recenti sull’opinione pubblica avevano messo in evidenza: dietro il 60% ottenuto da Lepore emerge la forza politica del Pd, che qui resta un partito solido, ben integrato nella città, ma dietro il 40% della Conti si legge chiaramente una forte domanda di discontinuità e di cambiamento rispetto al passato, che è penetrata con forza anche nell’elettorato militante del Pd e delle forze di sinistra.

Inoltre l’affluenza al voto che ha impedito la debacle torinese è legata in larga misura dalla presenza nella competizione della sindaca di San Lazzaro che ha mobilitato pezzi di elettorato democratico, che si sarebbero sottratti al rito dei gazebo se la partita fosse stata un confronto interno al gruppo dirigente del PD. Le primarie non sono state un fiasco grazie alla Conti, non grazie al Pd, che può misurare da questi numeri complessivamente non esaltanti il progressivo restringimento della sua area di consenso, e il modesto esito della scelta di essersi proclamata la capitale dell’antirenzismo con la benedizione di Prodi e di quella parte dell’intellighenzia stretta attorno al giornale la Repubblica e alla rivista il Mulino, e una adesione bulgara alla segreteria zingarettiana e ai suoi rituali populisti, ma sostanzialmente conservatori.

Al richiamo della foresta della tradizione progressista della città evocato con lo scalpo di Renzi in mano e con il recupero di un ulivismo di maniera non risponde quasi più nessuno, mentre emerge dietro il consenso alla Conti una città democratica, quasi repubblicana definitivamente post-comunista e post-dossettiana che ambisce a dire la sua nella guida della città e chiede di essere rappresentava oltre i vecchi steccati del centrodestra e del centrosinistra. Anzi se Isabella Conti avesse con maggior decisione aspirato a rappresentare questa rottura di continuità, invece che ribadire la sua fedeltà a quella tradizione, avrebbe forse raccolto molti più consensi e l’esito delle primarie sarebbe stato ancor più dirompente.

Unire i riformisti
Mentre il richiamo di Conte a fare di Bologna il laboratorio politico dell’alleanza tra Pd e Movimento 5 stelle espresso nel suo incongruo endorsement a Lepore sta perdendosi nelle nebbie della politica romana e smarrendosi sempre più la sua attualità – ci credono solo Francesco Boccia e Goffredo Bettini – per la semplice ragione che il M5S si sta irreversibilmente squagliando come neve al sole, assume invece notevole attualità politica il futuro politico di quel 40%.

Garantire rappresentanza politica ai quei cittadini e a quelle cittadine che si sono poste sulla trincea del cambiamento diventa la sfida principale delle forze riformiste della città, che ora vivono frammentate tra centrodestra e centrosinistra, nei piccoli partiti di Italia Viva, di Azione e di +Europa: raggrupparsi in un’unica lista, come sta accadendo a Milano a sostegno del sindaco Sala, diventa una responsabilità ineludibile, non solo per articolare l’offerta politica all’interno del centrosinistra e raccogliere l’adesione di forze centriste moderate che ne stano fuori, ma che non si riconoscono nella destra sovranista di Salvini e Meloni, ma anche per mettere in luce che c’è un alternativa alla deriva populista a un centrosinistra egemonizzato dal M5S.

Attorno a quel 40% scovato da Isabella Conti può nascere un polo riformista che occupi il centro dello schieramento politico che il PD di Lepore spostato sempre più a sinistra ha purtroppo abbandonato, lasciandolo sguarnito per le scorrerie del centrodestra. In questo senso Bologna può diventare il laboratorio della buona politica, che traduca a Bologna il progetto di un riformismo equilibrato ed europeo di Mario Draghi.

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