Shopping competitivoCompro quindi sono e altre storie sul consumismo (e sulla sua evoluzione dopo il Covid)

Spesso si spende, in acquisti di ogni genere, ben più del necessario. Gli esperti hanno dato diverse spiegazioni per questo fenomeno. Un articolo di Vox ci ricorda che tutti inseguono e provano a mantenere la propria posizione sociale partendo dall’ostentazione di un determinato tenore di vita, per quanto difficile possa essere

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«La società dei consumi contemporanea ha avuto grande impulso con l’aumento delle disuguaglianze: molte persone devono solo consumare la propria posizione sociale, provano a tenere il passo con l’immagine di sé nella società nonostante le difficoltà crescenti nel farlo». La dichiarazione è della sociologa del Boston Colloge, Juliet Schor, che ha studiato e analizzato la storia del consumismo americano e occidentale: in che cosa è radicato, come si è evoluto e come diversi gruppi di persone l’hanno vissuto.

La dottoressa Schor è stata intervistata dalla giornalista Emily Stewart per Vox, e nella conversazione analizza sia le dinamiche di lungo periodo che hanno costruito e formato il consumismo moderno, sia gli eventi più recenti, quelli della crisi del 2007-2008, e la pandemia degli ultimi mesi.

Una delle considerazioni iniziali di Schor riguarda il funzionamento dell’economia consumista, e il concetto di concorrenza che c’è alla base: non è solo tra i brand, ma parte da una competizione tra le persone.

«Una storia facile da raccontare è che i marketer e gli inserzionisti hanno perfezionato tattiche per convincerci ad acquistare cose, alcune di cui abbiamo bisogno, altre no. Ed è una parte importante dell’economia capitalistica: più le persone spendono, secondo la logica, meglio è per tutti. Ma il consumismo si basa anche su fattori sociali spesso trascurati: abbiamo un impulso sociale per tenere il passo con un certo tenore di vita, che però è un’operazione sempre più difficile», spiega la sociologa.

Non sappiamo precisamente quando nasce la società dei consumi così come la conosciamo. È difficile, anche tra gli accademici, trovare un punto di inizio: risalendo a circa un secolo fa, prima degli anni Venti del Novecento, si arriva agli albori della produzione di massa, che è ciò che rende possibile il consumo di massa.

Dagli anni Venti del secolo scorso le tecnologie e le tecniche di produzione hanno permesso di creare beni a buon mercato – più o meno – da vendere alla maggioranza della popolazione. L’esempio perfetto è l’automobile: «Il settore automobilistico», dice Juliet Schor, «è il segmento leader dell’industria nel passaggio da una produzione fissa a una catena di montaggio in movimento con grandi cali dei costi».

Poi ovviamente è arrivata la Seconda Guerra Mondiale, che ha fatto seguito alla Grande Depressione del ‘29. Il sistema è stato rimesso in piedi con la grande espansione degli anni Cinquanta, in particolare con gli interventi dei governi per stimolare l’edilizia abitativa, la costruzione di strade, l’industria automobilistica e tanti altri settori.

C’è una domanda controversa alla quale gli studiosi hanno fornito risposte molto diverse: perché compriamo quel che compriamo, più spesso del necessario? «Gli economisti presumono semplicemente che beni e servizi forniscano benessere e che le persone vogliano massimizzare il proprio benessere. Gli psicologi lo radicano nelle dimensioni universali della natura umana, che alcuni di loro legano a dinamiche evolutive. Forse nessuno dei due è particolarmente convincente. Si tratta principalmente del tipo di persona che i consumatori pensano di essere, perché per ogni persona c’è uno stile di consumo correlato. Il ruolo di quelli che vengono chiamati gruppi di riferimento, cioè le persone con cui ci confrontiamo e con cui ci identifichiamo, è davvero fondamentale. Ecco perché, ad esempio, ho scoperto che le persone che hanno gruppi di riferimento più ricchi di loro tendono a risparmiare meno e a spendere di più, e le persone che mantengono gruppi di riferimento più modesti, anche se guadagnano in reddito e ricchezza, tendono a risparmiare di più», dice la dottoressa Schor.

È il cosiddetto consumismo competitivo: l’idea che spendiamo perché ci confrontiamo con i nostri coetanei e quanto stanno spendendo, per quanto possa essere difficile tenere il passo. E la spiegazione è che «nella nostra società», dice Schor, «la stima o il valore sociale sono collegati a ciò che possiamo consumare. E così l’incapacità di consumare influisce sul tipo di valore sociale che abbiamo. Il denaro visualizzato in termini di beni di consumo diventa solo una misura del valore, e questo è davvero importante per le persone».

Sui nostri consumi, però, incidono anche altri fattori, non solo le persone di riferimento con cui ci rapportiamo. C’è, ad esempio, un grande impatto dei media e – adesso – dei social media, che sono come amici che non si conoscono. In questo caso si crea una connessione non per relazione diretta, ma semplicemente perché quel che vediamo è di fronte ai nostri occhi, a portata di polpastrello, letteralmente tutti i giorni.

«Non c’entra niente la pubblicità o la creazione del desiderio dove non esisteva da parte del marketing. Molte delle cose che le persone desiderano disperatamente non sono particolarmente pubblicizzate: la gente non compra una casa perché ha visto una pubblicità. Può essere molto razionale e convincente per le persone fare qualcosa che alla fine non li rende necessariamente migliori, qualcosa che se non facessero avrebbe un costo sociale molto grande», dice Schor.

Ultimamente si associa sempre più spesso il bisogno del consumo al tema della sostenibilità ambientale. D’altronde, gli effetti del cambiamento climatico sono sotto gli occhi di tutti e cercare una via – non necessariamente quella della decrescita – per salvare il pianeta è un imperativo.

Ovviamente non possono esserci soluzioni semplici o immediate. Però, di certo, un consumo diverso è indispensabile per raggiungere gli obiettivi climatici.

Unire il tema dei consumi e quello della transizione ecologica aiuta anche a parlare di disuguaglianze per cui, da un lato c’è «l’eccesso di consumo da parte di persone che stanno al vertice» e, dall’altro, «la privazione di un numero enorme di persone sia a livello nazionale sia all’estero. Non è solo il fondo della piramide, ma è una grande fetta della popolazione che non ha abbastanza. Quindi la distribuzione dei consumi è davvero fondamentale, e gran parte del discorso sul clima lo ha ignorato per molto tempo. Il Green New Deal è centrato su questo: non conduce in alcun modo a una critica del consumismo, ma si tratta di soddisfare i bisogni e l’equità delle persone. E ha molte implicazioni su come viviamo», dice Schor.

Da qui l’intervista si sposta poi sul tema dei consumi durante e dopo le fasi di recessione economica. Il primo sguardo va alla crisi del 2007-2008: se tra il 1991 e il 2007 il numero di capi di abbigliamento che le persone acquistavano, in media, è passato da 34 capi di abbigliamento nuovi all’anno a 67, quel numero non si è realmente spostato negli ultimi dieci anni.

«Non abbiamo avuto un’enorme discontinuità nel funzionamento del sistema di consumo, ma la gente aveva meno soldi. E questo fa parte della dinamica del rifiuto: quando è più difficile per le persone partecipare a quel sistema, a causa del suo costo crescente o del ristagno dei propri redditi, è più probabile che lo rifiutino», spiega la sociologa.

Adesso sarà interessante vedere le evoluzioni di queste dinamiche dopo l’impatto del Covid. Nell’ultimo anno e mezzo molte persone hanno vissuto con poco più delle necessità di base, almeno per un breve periodo.

È probabile che molte persone, proprio in virtù di questo periodo che ha tenuto le vite di molti in sospeso, come in una bolla, abbiano una sorta di domanda repressa: non è escluso che possa esserci un rapido ritorno al consumo, per quanto possa essere strano aumentare i consumi in uscita dalla crisi.

Ma ovviamente è un discorso che, messo in questi termini, esclude tutta una fascia di popolazione che è stata danneggiata dalla crisi al punto da non poter spendere.

«Durante la pandemia c’erano molte persone che non riuscivano a soddisfare i loro bisogni di base», conclude la dottoressa Schor nella sua intervista. Ma se c’è stato questo fenomeno, che ha coinvolto soprattutto la working class, c’è stato anche un altro fenomeno, che ha riguardato soprattutto la classe media, per il quale molti hanno conservato il proprio stipendio ma hanno visto ridursi le proprie spese: queste persone «erano bloccate nelle loro case, i soldi arrivavano nei loro conti bancari ogni mese e non avevano molto per cui spenderli. Ci sono molti che hanno quindi un reddito disponibile considerevole in questo momento. Ora vedremo un’esplosione di spesa e vedremo quanto durerà».

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