Il consumo di suolo in Italia continua, sempre più velocemente, a trasformare il territorio nazionale. Su una superficie totale di oltre 300mila chilometri quadrati, l’Italia si trova oggi lastricata da cemento, asfalto o altre coperture artificiale per più di 21mila chilometri quadrati. Lo attesta l’ultimo report sul tema proposto dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).
Solo nel 2020, nonostante la crisi pandemica e il relativo lockdown, il consumo di suolo, anziché arrestarsi, ha coperto altri 57 chilometri quadrati di territorio, l’equivalente di 2 metri quadrati al secondo. Un danno che causa la perdita di 52 chilometri quadrati di suolo agricolo o naturale.
Ad oggi, per ogni italiano si contano circa 360 metri quadrati di superfici artificiali. Eppure, solo quattro anni fa era 350.
Il consumo di suolo rappresenta un grande problema ambientale: l’espansione delle periferie, del sistema viario e delle infrastrutture incentiva l’incremento di quella copertura che non permette al suolo di respirare né all’acqua di essere assorbita, bloccando anche lo scambio di elementi nutrivi preziosi tra terra e aria.
Come spiega Ispra nel rapporto, «dal 2012 il suolo non ha potuto garantire la fornitura di 4 milioni e 155 mila quintali di prodotti agricoli, l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana (che ora scorrono in superficie aumentando la pericolosità idraulica dei nostri territori) e lo stoccaggio di quasi tre milioni di tonnellate di carbonio, l’equivalente di oltre un milione di macchine in più circolanti nello stesso periodo per un totale di più di 90 miliardi di chilometri. In altre parole, due milioni di volte il giro della Terra».
Tutto ciò, come se non bastasse, ha anche delle pesanti ripercussioni economiche: negli ultimi 8 anni, il problema è costato oltre 3 miliardi di euro all’anno.
A livello regionale, i dati più preoccupanti si registrano soprattutto in Lombardia, Veneto, Puglia, Piemonte, Lazio, Emilia-Romagna e Sicilia, aree dove tra il 2019 e il 2020 il suolo consumato ha raggiunto, rispettivamente, 765, 682,493, 439, 431, 425 e 399 ettari.
Se guardiamo al dato percentuale totale relativo al suolo consumato nell’ultimo anno, ovvero alla quantità complessiva di suolo con copertura artificiale esistente, il dato nazionale si attesta sull’7% (nel 2015 era il 7,02%, nel 2006 6,76%) rispetto alla media europea del 4,2%. Tre regioni della Penisola superano la soglia del 10% (Lombardia 12%, Veneto 11,87 e Campania 10,39%). Viceversa, le aree che registrano l’incremento più contenuto sono Valle d’Aosta (2,14%), Trentino-Alto Adige (3,14%) e Basilicata (3,16%).
«I dati di quest’anno – si legge nel rapporto – confermano la criticità del consumo di suolo nelle zone periurbane e urbane, in cui si rileva un continuo e significativo incremento delle superfici artificiali, con un aumento della densità del costruito a scapito delle aree agricole e naturali, unitamente alla criticità delle aree nell’intorno del sistema infrastrutturale, più frammentate e oggetto di interventi di artificializzazione a causa della loro maggiore accessibilità e anche per la crescente pressione dovuta alla richiesta di spazi sempre più ampi per la logistica».
I dati emersi purtroppo confermano l’avanzare di fenomeni come la diffusione, la dispersione, la decentralizzazione urbana da un lato e, dall’altro, la forte spinta alla densificazione di aree urbane, causa di perdita di superfici naturali all’interno delle città, superfici indispensabili a favorire l’adattamento ai cambiamenti climatici in atto. «Tali processi – continua Ispra – riguardano soprattutto le aree costiere e le aree di pianura, mentre al contempo, soprattutto in aree marginali, si assiste all’abbandono delle terre e alla frammentazione delle aree naturali».
Come anticipato, il consumo di suolo continua al ritmo non sostenibile di oltre 50 chilometri quadrati l’anno: secondo l’Ispra l’iniziativa delle regioni e delle amministrazioni locali sembra essere riuscita marginalmente, per ora, e solo in alcune parti del territorio, ad arginare l’aumento delle aree artificiali, rendendo evidente l’inerzia del fenomeno e il fatto che gli strumenti attuali non abbiano mostrato ancora efficacia nel governo del consumo di suolo.
«Ciò rappresenta un grave vulnus in vista dell’auspicata ripresa economica – fa sapere l’Istituto- , che non dovrà assolutamente accompagnarsi a una ripresa della artificializzazione del suolo naturale, che i fragili territori italiani non possono più permettersi». Un fardello sempre più ingombrante, perché le conseguenze dei processi di artificializzazione, delle perdite di suolo e del degrado a scala locale anche in termini di erosione dei paesaggi rurali, perdita di servizi ecosistemici e vulnerabilità al cambiamento climatico costituiscono dei costi, ambientali ed economici che potrebbero erodere in maniera significativa, ad esempio, le risorse disponibili grazie al programma Next Generation Eu.