La Rai è una perfetta metafora italiana. Stavolta in un senso strettamente politico: Mario Draghi indicherà i nomi del presidente e dell’amministratore delegato il 12, cioè prima che il Parlamento elegga i quattro consiglieri di sua spettanza (il che avverrà non si sa quando, visti che c’è già stato un rinvio). Non era scontato che il presidente del Consiglio di fatto umiliasse i partiti sulla Rai.
Mentre questi litigano tra di loro e al loro interno sui quattro consiglieri, Draghi gli taglia la strada e non si fa trascinare in una lungaggine che la destra vorrebbe fino alle amministrative. E dunque indicherà lunedì prossimo un manager di alto profilo (i nomi che girano sono Giorgio Stock, Laura Cioli, Matteo Maggiore) come amministratore delegato e un presidente in funzione di garanzia, imponendo dunque ai partiti di sbrigarsi a fare le proprie scelte.
Tutto questo conferma un dato politico che sta diventando strutturale: il governo è più veloce dei partiti. Ha le idee più chiare. È più attento agli interessi del Paese. Draghi cioè nei fatti è in sé un soggetto politico, e il draghismo, cioè quel complesso intreccio di decisionismo e capacità di mediazione che non ha precedenti, è la sua linea.
Immaginiamo per un attimo se Mario Draghi fosse un partito: i suoi risultati sarebbero incomparabilmente superiori a quelli dei partiti propriamente detti. I quali infatti ricorrono a espedienti identitari (Enrico Letta, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni mentre il Movimento 5 stelle è politicamente sparito, dilaniato in una lotta di potere) per dimostrare che esistono, mentre Draghi, semplicemente, fa.
Può darsi, come ha sostenuto sul Corriere della Sera Angelo Panebianco, che questo fare del presidente del Consiglio configuri di per se stesso una certa vocazione di centro. Quello che è sicuro è che i principali partiti, per dare un senso alla propria presenza, stanno radicalizzando la loro collocazione:
Letta vuole un Pd «moderno e di sinistra», molto caratterizzato sui temi civili e per nulla incline ai compromessi e dunque fuori dalla migliore tradizione democristiana e comunista; Salvini e Meloni gareggiano a chi è più di destra; Renzi prova una strana carta dell’estremismo di centro. Resta dunque a Mario Draghi non solo una innegabile superiorità tecnica ma anche un ipoteticamente grande spazio politico che non sapremmo se definire di centro ma comunque diciamo avulso dalle spinte del radicalismo di sinistra e di destra e innervato da una sorta di riformismo di sostanza più che di annunci e proclami.
La domanda vera è se questo spazio verrà riempito da una forza in grado di incarnare quel mix di decisionismo e arte del compromesso che connota il draghismo nel nome degli interessi generali del Paese. In teoria sarebbe questo il ruolo di un Pd in evoluzione. O di un Renzi pacificato. Persino di una Forza Italia autonoma dai sovranisti nostrani.
Per il momento, la realtà politica viaggia su due binari: la velocità di Draghi e la stagnazione dei partiti, due binari che marciano paralleli in un equilibrio che sta in piedi grazie alle emergenze nazionali legate alla pandemia. Ma quando ne saremo fuori (ieri la Commissione europea ha previsto una crescita del 5% del Prodotto interno lordo), questo centro riformista draghiano potrebbe avere la meglio su radicalismi vecchi e nuovi. Se qualcuno ci lavora.