Pezzi di vetroAi genitori serve un’equazione che azzeri la sofferenza dei figli (ma non esiste)

Ogni madre spera di non dover mai dare un dispiacere al proprio bambino. Solo che è praticamente impossibile: il rischio zero del pianto non si può evitare, specie se corre al pronto soccorso per ingordigia da troppo gelato

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L’altra notte mi sono convinta di aver mangiato un pezzo di vetro e no, non c’era De Gregori a dirmi che di vetro non si muore. Chiamo la guardia medica, la guardia medica mi dice di andare in pronto soccorso per sicurezza, prendo il bambino, chiamo un taxi, vado in ospedale, signora il bambino qua non può stare, mio marito non c’è, vuole che mi faccia arrestare per abbandono di minore? Mio figlio – genio, plusdotato, luminare – che nella sala dei raggi X dice alle dottoresse che lui sa, lui non vede niente, mamma guarirà.

Eccoci qua con Filomena Marturano, adesso muoio davanti al bambino, che brutta figura, che cazzo di trauma, ma perché ho mangiato un pezzo di vetro, ma cosa mangio il gelato dal barattolo scheggiato, è il Signore che mi punisce per la mia ingordigia, però non lo dico ai dottori che era gelato, che figura, che imbarazzo, non mangerò mai più lo giuro su Tara.

Apprendo con sgomento che siamo nel 2021 ma non c’è modo di vedere con i raggi il vetro, ma io dico, siamo andati sulla Luna e siamo qua che non vediamo il vetro. In questa mia sala d’attesa comunicante con la grande metafora, con il bambino buttato su un lettino a dormire e oddio che impressione, si affastellano una serie di pensieri siderali: come fanno i genitori single a farcela, come fanno i genitori single che hanno più di un figlio a farcela, speriamo che questo trauma sia aneddotico per quando mio figlio vincerà il Nobel per la medicina inventando i raggi X che vedono il vetro: «Adesso posso salvare la vita a quella cicciabomba di mia madre», applausi, genio e Nobel ritirato per bodyshaming parentale una settimana dopo.

Cerco nel frattempo di togliermi dalla testa il pensiero di un pezzo di vetro che mi apre il duodeno (cos’è il duodeno me l’ha detto il bambino), concentrandomi su un pensiero bel peggiore: è forse il caso di farmi voler meno bene da mio figlio in modo che non soffra se il duodeno non regge? Dovrei iniziare a trattarlo male? Come posso salvarlo da una cosa che non riesco nemmeno a scrivere? O forse sto vivendo un episodio di sindrome di Münchhausen?

C’è questo tacito patto che ognuno fa con il suo Dio quando nasce un figlio, Signore ti prego non farmi morire mai, ma qui si pone il dubbio se io sia pazza o se io stia rendendo reale un pensiero magico, e a questo punto dov’è il mio di Nobel.

Si piange la morte di genitori orribili? Questo salva i figli dal lutto? Dovremmo forse essere meno bravi, miti, accondiscendenti per un poi un giorno essere meno rimpianti? Si potrebbe pensare di elaborare una pedagogia al contrario, una pedagogia quantistica diciamo, formulare un’equazione che azzeri la sofferenza dei figli, il rischio zero del pianto.

La storia della filosofia ci insegna che non abbiamo filosofe mamme. Non posso dirlo con certezza perché non ho studiato abbastanza, ma da quel che ricordo Heidegger non era una mamma. È forse un caso? Una madre ha tempo di stare lì a menarla con l’ontologia? Non credo, a meno che non si possa riscattarla con le ore di allattamento. Sindrome di Münchhausen o patriarcato introiettato?

Direi che a questo punto posso serenamente puntare a diventare la Hanna Arendt delle madri. Grazie a Dio arrivano i medici e mi fanno smettere di pensare al vuoto a rendere, signora non ci sono lesioni, forse si è sbagliata, il vetro non c’è, e guarda un po’ che caso la diagnosi di mio figlio era corretta. Alle due di notte torno a casa con il cielo stellato sopra di me e la legge morale, però, non lo so.