Era il 2000 quando i primi cellulari vengono dotati di fotocamera. A quei tempi forse un’innovazione all’apparenza poco significativa. Oggi possiamo invece affermare che l’accoppiata smartphone con fotocamera e diffusione dei social network ha compiuto una piccola rivoluzione nelle nostre vite e nelle nostre abitudini. C’è chi fotografa tutto e posta tutto, su qualsiasi social abbia nel telefono. Ci sono quelli più discreti, ma che non disdegnano di farsi il selfie al momento giusto. Foto e video vengono condivisi, vediamo e sappiamo ogni cosa che ci vuole essere detta e mostrata.
L’espressione “società dell’immagine” è più che calzante per descrivere i nostri tempi. Siamo inondati di fotografie, di qualsiasi tipo. Ma tutto questo “vedere” quale effetto ha su di noi? La maggior parte delle foto ha una finalità per così dire “informativa”, e in questo c’è forse poca differenza con quello che si immortalava quando c’era il rullino e si era parchi nel fare clic e scattare.
Ora possiamo permetterci di essere poco morigerati, abbondare, mostrare e mostrarci in qualsiasi momento e situazione, ma l’obiettivo, quando va bene, è il medesimo: “documentare”.
Per ogni mezzo, esistono poi molti linguaggi. Rappresentare un paesaggio dipingendolo, filmandolo, descrivendolo con parole, lo si può fare in vari modi. L’oggetto è il medesimo, ma possiamo, vederlo, apprenderlo e conoscerlo, filtrato dal mezzo e dal linguaggio utilizzati, con gradazioni diverse.
Come quando le lenti degli occhiali sono sporche, ci vuole lo spray e una passata col fazzoletto, così a volte ci dobbiamo ripulire gli occhi. Ed è ciò che ci viene mostrato che produce questa “pulizia” e che attiva un modo di vedere “altro”, che non si esaurisce nell’immediato.
In un suo racconto dal titolo “Ballata”, Daniele Benati scrive che l’arte di Luigi Ghirri è «quella di vedere lo straordinario nell’ordinario, e di saperlo far vedere anche a noi». Ghirri poteva fotografare l’interno di una casa, magari la stessa camera da letto di Benati. Un soggetto ordinario: delle mura, un letto, un comodino, un crocifisso, dei vestiti, un mappamondo, che diventa qualcosa di straordinario. E lo straordinario, sempre per Benati, è l’epifania: «lo svelamento di un senso».
Per Gianni Celati «le fotografie di Ghirri tolgono di mezzo un luogo comune tra i più penosi, secondo cui il mondo si dividerebbe in aspetti interessanti e banali, in posti belli o brutti. Attraverso le sue foto tutto diventa interessante, ossia tutto acquista la dignità dell’essere, e invita lo sguardo a fermarsi anche sulle cose che nessuno guarda perché ovvie».
Nella raccolta dei suoi scritti e interviste (“Niente di antico sotto il sole”), ripubblicata di recente da Quodlibet, c’è tutto il mondo di Luigi Ghirri. Qui parla del suo lavoro, dei suoi colleghi, riflette sulla fotografia e sull’arte in generale. Viene ripercorsa la sua carriera che, come si dice in questi casi, è stata troppo breve ma folgorante: nato a Scandiano (Reggio Emilia) nel 1943, comincia a esporre negli anni ’70 e alla fine di quel decennio le sue fotografie sono in mostra alla Biennale di Venezia, a Parigi, a Milano, al Festival di Arles. Diventa uno dei più importanti fotografi a livello internazionale. Muore a Roncocesi (RE) nel 1992.
Basta scorrere l’indice dei nomi per rendersi conto della ricchezza del suo mondo, racchiuso in ogni sua foto. Di nuovo Gianni Celati, per esempio, con il quale collabora all’inizio degli anni ’80 in occasione di un lavoro sul nuovo paesaggio italiano che culminerà nello stupendo volume collettivo “Viaggio in Italia”. Oppure Jorge Luis Borges, che nel testo “L’opera aperta” viene evocato con parole che potrebbero essere utilizzate sia per descrivere il libro che l’intero lavoro di Ghirri: «Borges racconta di un pittore che, volendo dipingere il mondo, comincia a fare quadri con laghi, monti, barche, animali, volti, oggetti. Alla fine della vita, mettendo insieme tutti questi quadri e disegni si accorge che questo immenso mosaico costituiva il suo volto».
Sempre per restare nel campo dei grandi scrittori citati, Cesare Zavattini, con il suo celebre “Un Paese”, realizzato con Paul Strand, un capolavoro della «poetica della marginalità, della poesia delle cose semplici», come scrive Ghirri. E poi, presenza costante, quella di Bob Dylan, il mito di Ghirri, e i suoi fotografi di riferimento, come Atget, Lee Friedlander e Walker Evans.
Ghirri non era solo un fotografo, e la raccolta dei suoi scritti non può pertanto essere solo un libro sulla fotografia. Rifiutava l’etichetta di fotografo “intellettuale”, ma persona di grande intelletto la era. Accostarsi alle sue parole è come farlo con le sue fotografie: non viene da elogiare la bella pagina o la bella immagine, viene da stare in silenzio, perché nel frattempo è arrivato un pensiero da seguire.