Niente inaridisce una mente quanto la ripugnanza a concepire idee oscure.
E.M. CIORAN
Ho una sola opinione, anzi passione storica, ed è questa: ho sempre parteggiato per i cartaginesi.
E. FLAIANO
The game is out there, and it’s either play or get played. OMAR
Tempo di adulterio
31 luglio-6 agosto 2011, Frassanito (Le)
Con Elena non facevamo altro che litigare. La notte precedente, appena tornati dalla dancehall in spiaggia, mi aveva ammonito acida di pulirmi bene i piedi prima di entrare in tenda. Non voleva portassi dentro aghi, terra o altre cose di cui solo lei era in grado di preoccuparsi alle sei di mattina.
Così senza replicare avevo preso dalla tenda il mio materassino, l’avevo messo sotto il pino mediterraneo di fronte al nostro piccolo accampamento e mi ero addormentato lì pur di non sentire oltre la sua voce petulante. Dopo poche ore il sole era filtrato fra i rami e mi ero alzato fresco come una rosa – allora “doposbronza” era una parola priva di significato. Quando mi ero affacciato in tenda l’avevo trovata vuota, la mia ragazza doveva già essere in spiaggia. Avrei potuto scommettere che stesse approfittando della mia assenza per starsene in topless, sapendo benissimo quanto mi desse fastidio.
Solo a quel punto mi accorsi che il mio materassino era mezzo sgonfio, doveva essersi bucato con gli aghi di pino. Bestemmiai. Era un punto a favore delle regole naziste di Elena sulla pulizia interna alla tenda, ora mi toccava assolutamente trovare una pezza per camere d’aria e chiudere il buco prima che lei facesse ritorno. Nell’improbabile eventualità che poi se ne fosse accorta avrei sostenuto con calma e decisione che la pezza c’era sempre stata. Cosa voleva saperne lei di pezze per camere d’aria?
Soddisfatto del piano mi tastai i pantaloni in cerca delle sigarette. Trovai flyer tagliuzzati per farne filtri, monetine, un pacchetto di cartine, diversi accendini (ero un cleptomane di Bic), resti di sigarette spezzate che ordinai uno a fianco all’altro sulla stuoia. Di lì a poco mi sarebbero serviti. Infine ripescai anche il pacchetto di Camel Lights morbide che stavo cercando e ne accesi una.
Aspirai il primo tiro e ripensai alla notte precedente: una volta io e Elena saremmo rotolati in tenda incuranti di trascinare dentro sabbia, foglie, serpenti, stercorari o capre rupestri.
Una volta, quando la passione ci dominava. Sospirai, presi il barattolo del Nesquik e ne tirai fuori una cima di orange avvolta nella pellicola. In un campeggio come quello era un nascondiglio ridicolo per l’erba, ma per il viaggio aveva funzionato alla grande. Avevo persino richiuso il sigillo di freschezza con dell’Attak invisibile, creando una confezione a prova di cane tossico. Un sacco di gente si faceva beccare perché era sciatta nelle misure di sicurezza, diventare un emarginato però non faceva parte dei piani di Marco De Sanctis per il futuro. Il campeggio comunque era sicuro: il proprietario era un ex finanziere e godeva di un occhio di riguardo da parte dei vecchi colleghi e quel posto doveva la sua fama nell’ambiente del reggae proprio a questo.
Presi dall’abside della tenda il Roor, il mio bong di vetro, e gli cambiai l’acqua usando una delle preziose bottiglie di Elena, una piccola malignità compensativa. Io e la mia dolce metà eravamo gli unici imbecilli in tutto il campeggio con due casse d’acqua fuori dalla tenda. Inutile specificare a chi toccasse il trasporto. Accesi il bong e tirai con studiata lentezza facendo sfavillare tutta la mista, poi sfilai il braciere e inspirai di colpo il fumo che si era accumulato nel tubo.
Buongiorno, cazzo.
Espirai formando una piccola nuvola a mezz’aria fra la nostra tenda e quelle dei vicini arrivati la notte precedente. Quando finalmente il banco di nebbia d’agosto si disperse mi trovai di fronte a una visione: una ninfetta mora, con una spirale tatuata sulla spalla destra e i capelli a caschetto come Uma Thurman in Pulp Fiction, giocava a pochi metri da me con dei fili a cui erano legati due piccoli delfini di peluche.
Li faceva roteare ma non era molto brava: ogni tanto le corde s’ingarbugliavano e gli animali di pezza le sbattevano sulle gambe. Ci misi qualche secondo a capire che non si trattava di una creatura del THC, era una ragazza reale e soprattutto aveva un culo perfetto, piccolo e ben incorniciato da un paio di culottes blu. Lo sforzo faceva intuire muscoli delle natiche tonici sotto la pelle brunita, particolare che apriva a scenari d’incontestabile sodezza. Guidato da una forza più subdola della gravità ma ugualmente irresistibile, mi alzai dalla stuoia e a rischio della vita mi misi a portata di delfino sul cranio.
«Ciao» abbozzai.
La ragazza alzò lo sguardo impegnato e si produsse in un piccolo sorriso.
«Ciao».
«È dura far volare i delfini?» e stavo per aggiungere: “Voglio dire, sono pesci. Cioè mammiferi. Ma, insomma, vivono nel mare comunque. O nei circhi acquatici. A ogni modo non volano”, quando la parte sobria e minoritaria del mio cervello riuscì a impedirmelo.
«Abbastanza. Ho appena iniziato».
Avrei voluto invitarla a fare colazione al bar, ma ero fidanzato e se lei dormiva in quella tenda doveva aver visto Elena. Mi sembrò sconveniente, benché fossero almeno cento anni che nessuno usava quella parola. Così me ne stetti lì a guardarla qualche secondo di troppo, agevolato nel mio immobilismo da bambola di pezza anche dall’effetto dell’erba. Alla fine riuscii a chiamare a raccolta qualche neurone e chiesi: «C’è un segreto particolare?».
«Per cosa?»
«Per fare roteare i cosi».
«Bolas».
«Per far roteare i bolas».
«Le bolas».
«Per far roteare le bolas».
«Se c’è non credo di averlo ancora scoperto».
«C’è sempre un segreto per fare le cose».
Che cazzata pazzesca. Invece lei fece planare i delfini all’altezza delle caviglie fermandone la rotazione e guardandomi sorrise nuovamente, questa volta in modo più netto.
«Dici che c’è anche per questo?»
«Assolutamente».
«Martina» disse, porgendomi la mano.
Mi presentai a mia volta e scoprii che era di Milano e, come la maggior parte delle ragazze con cui avevo tradito Elena, studiava Lingue. Prima o poi avrei dovuto prendermi la briga di scoprire cosa in quel corso di studi le rendesse così ben disposte al sesso occasionale. Le dissi che io invece studiavo Filosofia e lei ebbe il buon gusto di non dire: “E cosa farai dopo?”, forse perché anche Lingue non assomigliava a un assegno circolare nel mondo del lavoro. A ogni modo fu un punto a suo favore. Non che ne avesse bisogno, con quelle chiappe marmoree. Martina era in Salento con due amiche, avevano la macchina, e: «Chissà, magari possiamo andare da qualche parte assieme».
«Lo proporrò alla mia ragazza» dissi per puro dovere istituzionale e per farle capire fra le righe il motivo per cui non avevo ancora provato a leccarla.
«Grazie intanto» aggiunsi, poi tornai alla mia tenda.
Prima di esplorare i possibili sviluppi di quella nuova conoscenza avevo due compiti fondamentali da svolgere per mettere la giornata sui binari giusti: 1. mangiare un cornetto crema e Nutella al bar; 2. trovare una pezza per camere d’aria e applicarla al materassino prima che tornasse Elena.
Riuscii a fare entrambe le cose e celebrai con un altro bong. Non avevo ancora idea della piega che avrebbero preso gli eventi e mi stavo dimenticando che era piena estate, il periodo dell’anno in cui la classica domanda femminile: “Ma sarà quello giusto, sensibile al mio animo gentile e rispettoso delle mie prerogative?” viene sostituita da: “Domani mattina alle sei ho il volo per Torino, vuoi scopare?”.
Eravamo insomma nel pieno di quella breve orgia di socialità carnale che il nostro mondo patologicamente individualista si concede ad agosto. Eppure per amore e paura delle rappresaglie di Elena provai a dimenticarmi di Martina.
Non durò a lungo. Già nel pomeriggio il pensiero insidiante del suo culetto virtuoso mi si riaffacciò nella mente, dapprima timido come un piccolo e spaesato cerbiatto dietro un larice in una fitta foresta, poi, meno di un paio di ore dopo, come un’improcrastinabile esigenza vitale alla stregua di mangiare, bere o fumare erba olandese ad alto contenuto di THC. Una cosa mi divenne presto chiara: dovevo evitare che l’inizio carico di buone speranze della mia conoscenza con Martina venisse sepolto da una valanga di sterilizzanti “Ciao” di circostanza. Analizzai la situazione da ogni punto di vista e giunsi alla conclusione che l’unico luogo dove potevo rincontrarla al di fuori dallo sguardo poliziesco di Elena erano i bagni del campeggio. Presi a cambiare l’acqua al bong forse una decina di volte al giorno rispetto alle due complessive della settimana precedente.
«Amore, vado a cambiare l’acqua e a dare una pulita al Roor.»
«Mmh?» disse la mia ragazza alzando distrattamente gli occhi dal suo saggio sul femminismo di Martha Nussbaum.
«Ma se da quando l’hai cambiata prima non hai ancora fumato».
«No, ti sbagli, ho fumato».
«Non ho sentito il rumore».
«Ho usato il braciere piccolo».
«Intendo il rumore delle bolle».
«Sarai stata molto concentrata» dissi ridendo. «La solita secchiona. Torno subito».
La mia fuga precipitosa e goffa e il passo troppo rapido mi avrebbero denunciato facilmente come mentitore se solo Elena non fosse stata troppo concentrata su sé stessa, come sempre. Quando finalmente intercettai Martina che stava uscendo dalla doccia, avevo ormai il bong più lucido dell’intero campeggio, il suo riflesso avrebbe potuto accecare un pilota di elicotteri e farlo schiantare nella pineta dietro i bagni.
«Oh, ma guarda chi c’è» dissi con il tono di chi si stupisce dei molteplici e imprevedibili casi della vita.
La conversazione che ne seguì non fu memorabile ma rinforzò in me l’idea che l’interesse potesse essere reciproco. Poi però Martina indugiò nella pronuncia di alcune parole strascicandole con un’enfasi non necessaria, un modo di parlare abbastanza diffuso in quell’ambiente che io però non sopportavo. In un altro momento una cosa del genere sarebbe stata più che sufficiente per farmi desistere da qualsiasi idea di tradimento. Per mantenermi fedele a Elena di solito bastava infatti il più piccolo e fisiologico infortunio, accadeva quasi sempre e quando non ne vedevo alcuno era solo perché non c’era stato abbastanza tempo. Nessuno è perfetto. Eppure, durante quelle settimane di meritato riposo che la mia ragazza stava rendendo una tortura cinese con le sue paranoie e la sua ostilità immotivata, quello divenne il momento in cui pensando di rinunciare al tradimento presi coscienza che avevo già di fatto elaborato un progetto per metterlo in atto. Siccome non mi è mai piaciuto lavorare a vuoto, il pensiero successivo fu che ormai avrei dovuto portarlo a termine. Più che un tradimento era diventata quasi una questione di gestione efficiente delle risorse che, come tutti sanno, è cosa importantissima in tempi di crisi.
Rividi la milanese in spiaggia con le sue amiche. Quella volta c’era anche Elena di fianco a me e non la tirai tanto per le lunghe, mi limitai a esibirmi nelle solite minchiate di circostanza: cosa avete fatto, dove andate stasera, eccetera. Erano le nostre vicine di tenda, per cui la mia ragazza non trovò la cosa sospetta e io stetti ben attento a non esagerare con la confidenza. Approfondii maggiormente la conoscenza di Martina quando la rincontrai da sola sullo stradone che dal mare conduceva al campeggio, portando a casa una breve conversazione divertente. Scoprii che amava il reggae (chi l’avrebbe mai detto, lì a Frassanito) e aveva persino comprato un mio mixtape (cla-clang! rumore di jackpot) nello shop di un centro sociale milanese. Lei e le sue amiche sarebbero rimaste una settimana in tutto, poi il loro tour estivo prevedeva una visita da amici in Sicilia.
I giorni passavano in fretta, e il pomeriggio prima che Martina partisse litigai di nuovo con Elena. Il motivo fu talmente ridicolo che non riesco neppure a ricordarlo, anche se ebbe così tante conseguenze. Qualcuno potrebbe dire che l’ho rimosso per senso di colpa, io credo semplicemente che con tutta l’erba che fumavo sia impossibile avere dei ricordi dettagliati di quei giorni. È normale che qualche particolare irrilevante sfugga. Quale che fosse il motivo, stufo delle urla di Elena misi nella tasca del costume le chiavi dell’auto, una banconota da venti euro, qualche ramino che avevo d’avanzo, il borsello porta-ganja con i primi tre denti della cerniera rotti e me ne tornai al mare.
Ordinai un mojito al Controvento, il bar dei surfisti – un baracchino di legno a ridosso dell’unico punto roccioso della spiaggia – e ne rollai una leggera. Il giovane barista mi guardò male, quell’erba aveva un odore fortissimo. Mi toccò ammorbidirlo offrendogli un paio di tiri. Li fece con la sufficienza tipica del salentino che non crede nelle potenzialità dell’erba di unu te lu Nord. Due minuti dopo tornò con gli occhi rossissimi offrendomi ospitalità incondizionata fino a quando avessi condiviso con lui quella primizia. Cercò di fare l’amicone, ma, a parte dirgli il nome del campeggio dove stavo, rimasi abbastanza abbottonato, non volevo che mi rompesse troppo i coglioni per scroccare ulteriormente.
Poi, come una sirena che emerge dalle acque, Martina apparve sulle scalette del bar che davano sulla spiaggia, i capelli ancora umidi dall’ultimo bagno e l’asciugamano legato attorno alla vita. Si avvicinò per salutarmi e io le chiesi se voleva bere qualcosa. Fece finta di guardare il mio mojito, come se il punto fosse davvero quello, e cedette alla mia proposta.
Un vento tenue increspava il mare e smorzava il caldo di quei giorni. Gli sguardi diagonali di Martina dissiparono i miei dubbi residui: anche lei mi desiderava, per cui in un primo momento cercai di parlare il minimo indispensabile per non permetterle di ricredersi. Una strategia appresa in Erasmus a Londra quando, impossibilitato dalla scarsa conoscenza della lingua a partire per voli pindarici sui massimi sistemi, mi ero accorto a sorpresa che meno parlavo, più scopavo. Ma quel giorno, complici i mojiti, il mio proposito di sembrare rassicurante attraverso il mutismo venne rapidamente archiviato e non riuscii a trattenermi dal farla ridere.
«Sei un tipo strano» disse a un certo punto interrompendo i miei sproloqui con un sorriso che però lasciava intendere che la sua frase successiva non sarebbe stata: “Ora me ne vado e se provi a seguirmi chiamo la polizia”.
«Cosa vuoi dire?»
«Non saprei come classificarti» fece lei, misteriosa. Avevo mandato a puttane il suo sistema d’incasellamento femminile e la cosa un po’ la disturbava, un po’ l’attraeva.
«Chi sono io, non ne ho idea esattamente. Mi sembra più facile sapere chi non voglio diventare» spiegai allora fingendomi collaborativo mentre tentavo di confonderle ulteriormente le idee. La strategia di fondo era portarla a pensare: “L’unico modo per scoprire la vera natura di questo ragazzo sarà fare del sesso sfrenato con lui”.
«Non voglio un matrimonio in chiesa, un posto fisso in una grande azienda né una casetta di proprietà in un quartiere residenziale dove la sera c’è solo gente che porta in giro il cane» elencai.
«Ok, questo mi sembra ragionevole.»
«Ma non mi piace nemmeno scopare strafatti dentro il subwoofer di un muro di casse a un rave techno, né ho intenzione di portare avanti una solida carriera nello spaccio di paste e di oppio rubato nei campi di papaveri delle multinazionali farmaceutiche in Spagna, e mai e poi mai andrò in Germania a comprarmi un furgone anni Settanta per viverci dentro».
«Io sono un po’ più a breve periodo. So che non ho mai voluto una Reflex, non ho alcuna intenzione di tirarla per le lunghe con l’università solo perché una volta finita non si trova lavoro, e a questo punto mi sa che non imparerò mai a far volare i miei delfini come si deve» spiegò con un sorriso, poi finì il suo mojito con un lungo sorso.
«Già, dovresti lasciarli liberi di tornare nell’oceano da madre natura» risposi, ostentando uno sguardo perso verso l’orizzonte in una smaccata parodia dei tizi simili a guru indiani (ma realisticamente di Barletta) che vendevano collane e braccialetti etnici poco lontano da lì.
Le risate di Martina erano sincere e questo mi fece pensare: “Ehi, non è solo carina, è anche una ragazza piacevole”. Mi rilassai. Lei mi diede un leggero schiaffo scherzoso sul braccio, e fu la prima volta in cui ci toccammo da quando ci eravamo stretti la mano per presentarci.
Ordinammo un altro giro. Neanche mezz’ora dopo eravamo belli ciucchi tutti e due. Le avrei proposto volentieri una passeggiata in spiaggia, magari pure un bagno, con l’obbiettivo nemmeno troppo nascosto di una successiva ritirata strategica sulle dune; il mio cellulare però aveva preso a vibrare già a metà del secondo mojito per i continui messaggi di Elena: la mia ragazza voleva che tornassi in campeggio per fare la pace nel modo solito. Sull’instabilità di Elena posso dire molte cose negative, ma il sesso riconciliatorio con lei era sempre qualcosa di incredibile. Anche per questo non riuscivo mai a dirle di no, e farlo per la prima volta lì, in quel paradiso di sue coetanee in costume da bagno, sarebbe risultato decisamente sospetto, senza contare che, privo com’ero di una scusa plausibile, avrebbe potuto raggiungermi da un momento all’altro in spiaggia, cogliendomi così nel pieno delle grandi manovre. Perciò dissi a Martina che dovevo proprio andare, non prima però di essermi assicurato che quella notte anche lei sarebbe stata alla dancehall pirata, ovvero l’ultima vera occasione prima della sua partenza. Sullo stradone che mi portava verso un’Elena in cerca di riconciliazione mi consumai su come Martina mi fosse scivolata via dalle mani quando ormai ero così vicino all’adrenalina del primo bacio, della prima volta in cui le avrei tolto la parte sopra del costume, e di tutto il resto. Sulle speranze residue infatti c’era un grosso problema: Elena, come me, non si perdeva mai una dancehall e in più, al contrario di me, non era mai stanca: era per colpa sua se finivamo sempre per chiudere i locali e questo non solo lì nel Salento, dove fare l’alba in spiaggia poteva avere un suo perché, ma pure certi sabati grigio piombo di gennaio, quando rimanevamo al Livello fino all’ultimo disco di Cicciopasticcio sound o chiunque fosse lo scarsone in console quella nottata. In genere quando ce ne andavamo erano rimasti solo punkabbestia strafatti che uscivano come ectoplasmi dalle sale della tekno. Era un vizio da ragazza di dj che però, quando non ero io a mettere i dischi, mi sminchiava infinitamente. Per cui non avevo dubbi che anche quella notte avrebbe continuato a ballare fino a quando non fosse finita la miscela del gruppo elettrogeno, sarebbe quasi stata capace di offrirsi di andare a comprarne dell’altra con una tanica, conoscendola.
Arrivato in campeggio, la trovai intenta a sistemare la nostra piazzola. Quando mi vide, mi chiese di raggiungerla dentro la tenda e mi accorsi, non senza una certa sorpresa, di avercelo già duro. Elena non rappresentava più una novità, è vero, ma aveva comunque dalla sua quel momento in cui l’eccitazione scioglieva la durezza nei miei confronti e i suoi occhi ritornavano quelli dell’irresistibile ragazza dolce che era stata agli inizi della nostra storia; un dualismo che rischiava seriamente di mandarmi via di testa.
Con tutto che da una settimana non faceva altro che rompermi i coglioni, quel suo modo di abbandonarsi senza riserve nell’amore mi fece sentire in colpa; dovevo riconoscere che Elena esercitava su di me un potere quasi assoluto, lo stesso, in fondo, che mi aveva fatto alzare dal Controvento per arrivare fino a lì quando mi trovavo di fronte a un’altra ragazza bella, disponibile e inedita, e si sa quanto quest’ultima condizione conti per il DNA di un uomo.
Elena venne in maniera prorompente, per fortuna fuori avevo lasciato lo stereo acceso con un mixtape di Sentinel a volume bello alto. Se proprio non copriva del tutto i nostri ansiti quanto meno li mimetizzava fra le liriche di Vybz Kartel e i latrati di Mavado.
Subito dopo l’orgasmo Elena recuperò buona parte della sua durezza e si mise ad attendere che anch’io facessi il mio con lo sguardo appassionato di una massaia che aspetta l’autobus. Per un istante, di fronte a quel cambio patologico di personalità mi venne voglia di farne a meno. L’erezione però mi ha sempre reso un uomo poco sensibile alle questioni di dignità e finii per approfittarne conigliescamente. Una volta fuori dal microclima di caldo, sudore, umori femminili e sperma della tenda, mi accesi una sigaretta, scoprendo con una certa sorpresa che il senso di colpa era già un lontano ricordo. Avevo anzi voglia di rivedere Martina, giusto per ricordarmi che meritavo qualcosa di meglio che essere trattato così. Proprio in quel momento Elena uscì dalla tenda con un vestitino lungo e leggero, bianco con dei piccoli fiori quasi in trasparenza. Maledetta, le stava benissimo.
«Questa sera che facciamo?» chiese.
«C’è una dancehall pirata qua in pineta, più comodo di così…»
Quando arrivammo alla pirata c’erano già almeno tre o quattrocento persone, il sound system era stato montato in un grande spiazzo fra i pini marittimi, alberi talmente alti che le chiome intrecciate a una decina di metri sopra le nostre teste formavano una sorta di volta illuminata dal basso dai faretti attorno alla console. Ne avevo viste di feste in posti spettacolari, ma quella cattedrale arborea si posizionava senza dubbio nella parte alta della classifica. Ci mettemmo come sempre sotto la torre di casse di destra, il lato in cui, quale che fosse il posto in cui si sarebbe tenuta la dancehall quella sera, ballavano le persone che conoscevo da una vita. Lì incontrai anche Rocco, un mio vecchio amico salentino che oltre a spacciare faceva il muratore con il padre e cantava ogni volta che il dj girava il disco sul lato della strumentale e il microfono incominciava a girare.
«Ehi cumparema stau scattatu» disse quando mi vide, e in effetti aveva una brutta faccia.
Quell’estate lo avevo trovato molto più sotto con la coca rispetto al solito. In tutto l’inverno poi aveva scritto una sola canzone nuova: non un buon segno. Mi faceva ancora spaccare dal ridere ma il suo carattere fondamentalmente buono mi sembrava stesse virando verso qualcosa di diverso a ogni colpo di bamba, ed era chiaro che di colpi ne dava parecchi. Io e Elena ne avevamo parlato a lungo perché entrambi gli volevamo bene e ci dispiaceva quella situazione, d’altro canto però noi dal Nord, con le nostre due-tre discese l’anno, cosa potevamo fare per lui?
Quella sera Rocco non considerò granché la musica: lo vidi muoversi nella folla alla spasmodica ricerca di qualche femmina oppure impegnarsi in turbinose contrattazioni con dei ragazzi un po’ fuori contesto, mazzari di paese che con il reggae avevano l’aria di c’entrare poco. A ogni modo io avevo altri pensieri. Finalmente avevo trovato Martina: ballava davanti all’altra torre di casse, canottierina nera e pantaloncini attillati. Ricordo distintamente che, nel momento in cui la individuai, deglutii. La secchezza delle fauci sarà stata colpa anche dall’erba, per carità, ma quella ragazza mi stava facendo diventare scemo, dovevo assolutamente fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Peccato però che Elena fosse proprio davanti a me, un po’ più sbronza del solito ma sempre inarrestabile. Nel dubbio, rollai una canna. Ci misi dentro una quantità di ganja indegna, qualche soddisfazione, pensai, in un modo o nell’altro quella sera me la sarei tolta.
Poi però successe un fatto anomalo. Forse sull’onda dell’eccitazione che avvampò per la pista quando il selecta suonò per tre volte di seguito i primi quaranta secondi di Smoke the Weed dei Ward, Elena, che di solito fumava con parsimonia, seccò in tre tiri la metà della megacanna, lei che quando esagerava rischiava sempre di stare male. Non fumava mai Roor, né chiloom proprio perché in passato un paio di volte era svenuta dopo averli usati. Niente di grave, si era ripresa sempre da sola e in un attimo – era solo una questione di pressione bassa –, ma comunque da allora aveva smesso con gli strumenti. In un’altra occasione a Osoppo, al Sunsplash, mi aveva fatto tornare in tenda per colpa di una ventata di paranoie da fumo proprio mentre Capleton stava facendo un medley a cappella delle sue hit storiche, roba da strozzarla lì sul posto.
Per questo dopo il secondo tiro stavo per intervenire e dirle di andarci piano ma il mio diavoletto personale, che quando mi trovavo nel Salento si esprimeva nell’idioma locale, intervenne durissimo: “Ce cazzu sta faci! Lassala cu fuma dhra vagnona, fidate de mie, fidate!”.
Rimasi per un momento con la mano destra sospesa sopra la spalla di Elena, poi però la ritrassi. Lei si fece un altro tiro ancora, questa volta di dimensioni normali, poi mi ridiede il moncherino di canna, sorridendo.
«Ops».
«Però» commentai. Nel mio cervello intanto il diavolo del Salento ballava la macarena. Continuavo a far scivolare lo sguardo verso Martina, poi, un quarto d’ora dopo, Elena disse di non sentirsi tanto bene e di voler uscire un momento dalla folla. Finì che l’accompagnai in campeggio e la misi in tenda: in un amen stava dormendo, mezzo russando, anzi. Guardai l’ora sul cellulare: erano appena le due e mezzo. Avevo tutta la vita davanti.
Tornato alla dancehall cambiai torre di casse. Appena arrivato nella nuova posizione mi toccò liberarmi del barista del Controvento, quello che mi aveva scroccato una canna nel pomeriggio, e ora, finito il turno, era lì a ballare e chiaramente avrebbe voluto ancora un po’ di olandese. Me lo sciacquai di dosso con una certa classe, non ricordo le parole esatte ma ricordo distintamente che rimasi stupito io stesso del savoir-faire con cui gli avevo fatto capire che non c’era trippa per gatti ed era il caso che mi mollasse una volta per tutte. Avere una missione senza dubbio aiutava. Finalmente Martina mi vide, mi venne incontro sorridente e mi abbracciò. Era sbronza, ma il suo profumo era comunque buonissimo.
Disse: «Ehi».
Io ripetei: «Ehi».
Le sue amiche non c’erano, erano andate a sentire la drum ’n bass a Gallipoli, lei invece aveva preferito venire lì con altra gente del campeggio. Era evidente come fosse venuta apposta per me e per un momento non potei esimermi dal trovare la cosa svalutante. Considerazioni da ragazzina insicura che però scomparirono appena incominciammo a ballare, sempre più promiscui, sempre più attaccati, finché non uscimmo da quel casino e ci ritrovammo ai bordi della festa, là dove ricominciava la pineta. Sorridemmo ancora come due deficienti e poi ci muovemmo uno verso l’altro per baciarci partendo entrambi esattamente nello stesso momento, tanto che per poco non ci facemmo male ai denti. All’ultimo però le canne, il vino e le birre ebbero la peggio sul nostro istinto a incastrarci perfettamente: quando le cose sono destinate a unirsi non c’è sincronicità né pigna epocale che possa fermarle. Ormai ero in controllo della situazione, parlavo con la voce ferma e sicura che mi scaturisce inaspettata le rare volte in cui ho l’esatta percezione che tutti i pezzi si stiano magicamente incastrando nel modo giusto. La presi per mano e la portai con me per uno dei sentieri che andavano verso il mare, che da lì distava forse duecento metri. Prima di arrivarci, però, appena finita la pineta deviai per un altro spiazzo, più piccolo, circondato dai cespugli. In quel punto il suono della dancehall arrivava sfumato a sufficienza da farci sentire protetti.
Ci strappammo praticamente le magliette di dosso. Martina mi salì a cavalcioni, i suoi seni erano piccoli e sodi e non ci volle molto prima che mi ritrovassi a leccarli, mordicchiandole i capezzoli. Lei arretrò la testa ansimando, poi mi spinse contro la sabbia e me lo prese in bocca. Guardai il cielo, vidi le stelle e la Via Lattea con una nitidezza di cui non avevo mai fatto esperienza prima e mi sembrò tutto così perfetto da farmi sentire inadatto. Fu un attimo, mi ripresi subito. C’era però un altro problema, ma appena provai a dire: «Aspetta…» lei mi rassicurò.
«Prendo la pillola.»
Le entrai dentro. Non era la prima volta che tradivo Elena, ma fu la prima in cui non pensai a lei mentre facevo l’amore con un’altra. Poi feci quello che avevo voluto fare da quando Martina era apparsa con i suoi delfini al dissolversi del fumo. La misi carponi e cominciai a prenderla da dietro, rimanendo per un momento spiazzato dalla precisione geometrica delle sue natiche. Ce l’avevo così duro che quasi mi faceva male, e Martina sembrava apprezzare. Orgasmò in fretta, io ci misi un po’ di più ma alla fine le venni sulla schiena. Lei rimase ancora per qualche secondo ansimante carponi, i capelli che le coprivano il volto; avrei voluto crollare su un fianco, ma mi sarei riempito di sabbia. Così rimasi lì in piedi con il cazzo gocciolante senza sapere bene cosa fare, finché quasi scoppiai a ridere e m’infilai nuovamente i pantaloncini. Baciai Martina, che faticava a ritrovare il ritmo normale della respirazione.
«Devo fare il bagno, non posso tornare in campeggio così».
«Immagino di sì» disse lei, rivestendosi a sua volta.
Ci immergemmo nudi nell’acqua tiepida di quella notte di agosto, ci baciammo ancora, mi tornò duro e scopammo anche in acqua. Che giornata grandiosa. Una volta fuori le diedi un bacio sulle labbra e pensai che sarebbe stato l’ultimo, ancora non sapevo che quella non sarebbe stata una scelta.
«Forse è meglio se non torniamo assieme là dentro.»
«Sì, tranquillo» rispose e mi diede un altro bacio, questa volta sulla guancia, e la percepii come già distante.
«Io voglio fare ancora due passi qui in spiaggia, poi arrivo» disse.
Tornai alla dancehall ma il sound system era cambiato, ora c’erano in console dei ragazzi di Roma che non mettevano a tempo due pezzi manco per sbaglio, lo speaker sbraitava al microfono delle cose senza senso: in due parole stavano uccidendo la serata. Rocco era sparito, e le persone se ne andavano alla spicciolata o si sedevano ai margini della pista a bere e fumare.
Quello che era appena successo era stato decisamente superiore alle attese, ciononostante mi sentivo un po’ in colpa per Elena, abbandonata da sola in tenda. Martina non tornava, così dopo una ventina di minuti in quella situazione le mandai un messaggio, dicendole di non azzardarsi a partire l’indomani senza salutarmi (anche se, aggiunsi, “con discrezione”), poi me ne tornai in campeggio, dove trovai Elena immersa in un sonno profondissimo. Tirai fuori il materassino e mi misi un’altra volta a dormire sotto gli alberi.
La mattina seguente il sole mi svegliò ancora per primo, diedi uno sguardo alla tenda di Martina ma era chiusa, lei e le sue amiche dovevano stare ancora dormendo. Andai al bar, a quell’ora deserto, presi un caffè e uno dei loro pessimi croissant.
Ripensai al sapore di Martina, il campeggio dormiente offriva la quiete meditativa adatta a metabolizzare quell’inaspettata fortuna, a imprimermi nella mente le immagini del suo corpo nudo: mi sarebbero tornate utili in inverno per le mie raspe clandestine nel bagno del bilocale che condividevo con Elena.
Sempre che fossimo rimasti assieme, io e lei. Il mio ego appena rinvigorito da Martina trovava finalmente il coraggio di portare a galla quei dubbi rimasti sul fondo della mente per troppo tempo. Elena era stato il primo amore della mia vita, ma la situazione fra noi si era fatta insostenibile. Sospettavo che lei non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciarmi e avrebbe fatto di tutto perché fossi io a prendermi quella responsabilità. Una passiva aggressiva da manuale. E se avessi chiesto a Martina di andare con loro? Certo in un film sarebbe stata la scelta più logica. Già mi vedevo a mangiare pesce a Mondello, fare l’amore con lei in una stanza della casa dei suoi amici, sicuramente una vecchia magione nobiliare con tanto di tende bianche battute dal vento. La realtà era probabilmente fatta di campeggi con i bagni rotti, ma non era questo il punto. Non ero mai stato una persona in grado di fare cambiamenti rapidi e drastici nella vita affettiva, senza contare che solo proporre una cosa del genere a Martina avrebbe bruciato in un secondo tre quarti del fascino che potevo esercitare su di lei: “Abbiamo scopato una volta e ti attacchi come una cozza?”. Poi c’erano i problemi logistici: non potevo lasciare la mia macchina lì nel Salento e fra qualche giorno sarebbero arrivati i miei amici da Bologna. Non potevo paccarli. Ma, più importante ancora: non riuscivo nonostante tutto a immaginarmi senza Elena. Nel dubbio sentenziai che era arrivato il momento del primo Roor della giornata.
Tornato alla tenda, continuai a osservare i movimenti alla piazzola di Martina finché non mi resi conto che c’erano solo le sue due amiche. Fingendo di sistemare le scarpe e rassettare le stuoie origliai la loro conversazione. Anche loro si stavano chiedendo dove fosse finita Martina.
«Avrà trovato un ragazzo» commentò la più bassa delle due, poi si accorse di me e mi parve che mi stesse guardando strano, come a dire: “Fortuna che ha trovato qualcuno più sveglio di te”.
Sorrisi compiaciuto del fatto che non avesse capito niente. Però perché non era tornata? Magari davvero aveva trovato un altro ragazzo. Nel qual caso… che zoccola. Il mio orgoglio ne risentì immediatamente, mi preoccupai pure di non aver usato il goldone. Afflitto da questi pensieri stavo approntando il Roor per la colazione olandese quando un ragazzo di Roma che avevo conosciuto qualche giorno prima passò rapido vicino alla tenda e guardando in un’altra direzione mi sussurrò: «Piove».
Il cielo era terso, capii l’antifona e nascosi il bong. Per l’erba non c’era molto da fare, se fossero entrati coi cani tossici mi avrebbero colto con le mani nel Nesquik. Mi ero sentito troppo sicuro e adesso questo rischiava di rivelarsi un errore. Ma non era la Finanza, erano poliziotti e puntavano dritti verso di me. Mantenni la calma e mi misi a raccogliere i costumi e gli asciugamani che Elena aveva messo ad asciugare su un filo teso fra due pini. I militari però mi superarono senza degnarmi di uno sguardo e si fermarono di fronte alla grande tenda di Martina e delle sue amiche. Dissero alle ragazze di seguirli.
Infilai una maglietta e tornai al bar all’ingresso, un po’ di persone ora si erano svegliate e capannelli di campeggiatori confabulavano con le facce lunghe. Il clima era molto meno rilassato del normale, mancava anche il solito odore d’erba nell’aria.
Mi avvicinai al bancone, ordinai un altro caffè in ghiaccio e chiesi alla barista cosa fosse successo.
Lei mi rispose con il suo forte accento salentino incrinato dall’emozione: «Hanno trovato una ragazza morta in spiaggia».
Sentii una fitta gelata e dolorosa attraversarmi la schiena e il mio cervello andò in stallo per alcuni lunghi secondi. Fortunatamente la ragazza era troppo emozionata per fare caso alla mia reazione. Camminai verso la reception, c’erano tre auto della polizia parcheggiate fuori. Quando vidi le amiche di Martina uscire in lacrime dal piccolo prefabbricato di legno della direzione non ebbi più dubbi. Tutta quella polizia faceva presagire che non si fosse trattato di una morte naturale. Mi piacerebbe poter raccontare che fui distrutto dal dolore per Martina, ma non fu così. Il mio primo pensiero fu: “Devo salvarmi il culo”. In fondo quella ragazza non la conoscevo davvero, e poi ci vuole tempo per realizzare l’aspetto emozionale di una notizia del genere. È la famosa negazione freudiana, non è colpa mia se chi non conosce queste cose poi si sente autorizzato a ritenermi una persona senza cuore. E poi lo shock, c’è da considerare lo shock, a Martina ci avrei pensato davvero soltanto mesi dopo, ma questa è un’altra storia. Quello a cui pensai in quel momento furono le puntate della Leosini viste nei lunghi inverni bolognesi, ne avevo guardate abbastanza da sapere che i maschi che sembravano colpevoli, come sarei sembrato io appena si fosse scoperto che mi ero appartato con Martina, di solito finivano in carcere per molti anni, talvolta per tutta la vita.
Così, nascondendo il terrore, rimasi un altro po’ al bar, mi accesi una sigaretta e m’infilai in uno dei gruppi di persone, stetti ad ascoltare e feci a mia volta qualche domanda, scuotendo la testa contrito come si fa sempre quando il male si manifesta nelle nostre vite.
Dissero che l’aveva trovata un turista tedesco del campeggio dei surfisti durante la sua corsa mattutina. Se ne stava vicino a una duna dietro cala della Conchiglia, a meno di trecento metri da dove l’avevo lasciata. Non si sapeva ancora perché fosse morta.
Tornai alla tenda e trovai Elena che ascoltava con la mano davanti alla bocca la notizia da un vicino. Era quasi in lacrime.
Com’era sensibile quando non si trattava di me. «Hai sentito?» chiese.
Scossi la testa per dirle con un gesto che sì, avevo sentito, ed era incredibile. Cominciai a pensare che la cosa più sensata da fare fosse andarsene, ma era un proposito di difficile attuazione: avevamo prenotato per un’altra settimana, poi Elena sarebbe partita e sarebbero arrivati Nino e Roberto per l’ultima parte della vacanza, quella dedicata agli amici. Saremmo stati a Martignano, nella casa che un tempo era stata dei miei nonni, dove dopo qualche giorno ci avrebbero raggiunto anche i miei genitori per le ferie. Secondo Elena quella casa era intollerabilmente lontana dal mare ma per noi tre, che tanto al mare ci saremmo andati poco o niente, concentrandoci sulle feste, era un ottimo modo per risparmiare.
Per mezz’ora mi consumai in pensieri ossessivi sulla situazione, sulla cosa migliore da fare e sull’immagine della Leosini che mi interrogava in carcere, finché non trovai il coraggio di proporre a Elena di trasferirci subito a Martignano: in fondo chi vuole passare le vacanze in un luogo dove è appena morto qualcuno? Quando le amiche di Martina vennero con le facce distrutte dal dolore a smontare le tende, facendo ammutolire così tutta quella zona del campeggio, Elena si avvicinò e mi disse che era d’accordo: ce ne dovevamo andare.
Più tardi stavo pagando alla reception, la macchina già carica in strada, quando in lontananza vidi quattro poliziotti venire verso l’ingresso del campeggio. Al loro fianco camminava un ragazzo, aveva una faccia già vista anche se non riuscivo a ricordare dove. Sembrava indicare qualcosa. Quando si fecero più vicini lo riconobbi: era il barista del capanno dei surfisti e il suo dito era puntato su di me.
da “Lascia stare la gallina”, di Daniele Rielli, Mondadori, 2021, pagine 540, euro 15