Da un lato c’è l’integrazione, dall’altro l’inclusione. Spesso scambiati per sinonimi, sono due cose ben diverse: «L’inclusione implica che non ci siano differenze», spiega Anna Zinola, autrice per Egea di “Diverso da chi? L’inclusione come strumento di marketing”, in cui fa una attenta disamina, ricca di esempi e storie, delle strategie con cui i marchi sposano, o cercano di farlo, il concetto di diversity. «L’integrazione, invece, le differenze continua a vederle». Un esempio illuminante – che ricorda anche nel libro – glielo aveva fornito sua figlia. «Mi aveva detto che nella sua classe c’era una bambina “marrone”. E io subito le avevo risposto, irritandola, che “i bambini sono tutti uguali”. La mia reazione è stata una forma di integrazione: uniti nelle differenze. La sua visione, invece, era inclusione. La differenza c’è, ma non ha rilevanza».
Gli esempi possono essere tanti – un cubo di Rubik con il braille al posto dei colori è integrazione, lo stesso cubo con i colori e il braille è inclusione – e il mondo aziendale ne offre tantissimi. Ci sono le sfilate con modelle magre e curvy, o con la vitiligine o le bambole che riflettono le diverse etnie. E ancora: i vestiti pensati per disabili (senza bottoni, o con tagli particolari per seguire le diverse forme del corpo), le copertine fuori dagli schemi di riviste patinate, fino ai negozi senza spigoli. Il vero problema, semmai, è capire se le politiche di inclusione dei marchi siano autentiche o di facciata. Secondo quanto scrive il libro, molte apparterrebbero al secondo gruppo.
«Le aziende possono occuparsi di inclusione su più livelli. Uno di questo è quello del prodotto. Si tratta di individuare segmenti di mercato, aree di differenza non considerati cui possono dare una risposta. Il caso emblematico è quello di Fenty, di Rihanna». Il marchio di make up creato nel 2017 [adesso è di proprietà del colosso LVMH] con il suo fondotinta Pro Filt’R ha introdotto, per la prima volta, 40 sfumature diverse, per pelli chiare e soprattutto per pelli scure. Funziona anche per le diverse età. «Questo ha permesso di includere una fascia della popolazione che faticava a trovare un prodotto adeguato».
Il successo ha fatto da apripista a una serie di prodotti, di altri marchi, che seguivano la stessa logica. Sembra incredibile, a pensarci, che sia avvenuto solo nel 2017. «Questo si spiega, invece, guardando all’organizzazione delle aziende. Il più delle volte sono guidate da uomini – che non hanno pratica diretta di make-up – e da donne che non provengono da minoranze. Rihanna, in questo senso, è la figura chiave: credibile per la sua storia personale e per le battaglie che ha sempre combattuto». Per questo motivo – va detto – se la stessa idea fosse stata promossa da Shakira, che si muove in uno spazio diverso, non avrebbe avuto la stessa efficacia. L’innovazione, come sempre, è all’incrocio tra l’idea e lo spirito del tempo.
«L’altro livello, dopo quello del prodotto, è quello della comunicazione». A differenza del primo, che ha un riscontro commerciale, qui le campagne inclusive servono a posizionare il brand e a vendere un’idea di reputazione. È su questo campo che la sincerità (o la sua mancanza) giocano un ruolo decisivo. «Nel 2004 c’era stata la campagna di Dove “For real beauty”, in cui venivano esaltate le bellezze di persone “normali” al posto delle modelle professioniste». Uno dei passaggi della campagna prevedeva di mettere a confronto due raffigurazioni della stessa persona, una disegnata, al buio, sulla base la descrizione che la stessa faceva di sé, l’altra seguendo invece la descrizione fatta da un osservatore esterno. Il risultato era, senza eccezioni, che la seconda immagine (ossia lo sguardo esterno) era sempre più generosa della prima. In poche parole, le donne si considerano meno belle di quanto gli altri siano disposti a pensare.
«La campagna è stata un successo e ha scatenato dibattiti. Ma è sincera? Dove fa parte di Unilever, che possiede anche il prodotto Axe, un deodorante – pensato per giovanissimi – dove la comunicazione è invece molto tradizionale, attinge cioè a modelle e immagini di bellezza tradizionale. Questo vuol dire che anche la campagna Dove è stata una scelta di marketing, non riflette cioè valori che l’azienda dimostra di possedere nel profondo. Altrimenti non avrebbero diversificato, a seconda del pubblico di riferimento, questi aspetti della comunicazione».
Il tema «dell’empowerment femminile, del resto, è quello su cui si può misurare meglio la distanza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Per questo è fondamentale osservare i comprtamenti interni all’azienda, la presenza di donne ai vertici, valutare le opportunità di carriera».
Più complicato ancora è, invece, il tema dell’inclusione a livello estetico. La tendenza “ugly is beautiful”, promossa da numerosi marchi della moda, che fanno sfilare modelle curvy o con bellezze non canoniche, può tradurre due volontà. «La prima è quella di ridefinire i codici del bello. Un esempio è quello di Demna Gvasalia, stilista georgiano, ora direttore artistico di Balenciaga, che fa sfilare – a livello di couture – anche abiti e soggetti fuori dai canoni. Anche con abiti oversize, che cioè non risultano pennellati sul corpo dell’indossatrice». Il suo obiettivo «è mettere sotto i riflettori cose che incontra per strada, che esistono davvero e che si vedono rappresentati anche sulla passerella». In questo senso è inclusivo e innovativo.
Anche qui, però, c’è un altro livello. Il caso «della modella con sindrome di Down, Elie Goldstein, scelta da Gucci per promuovere il mascara» segue una logica diversa: è uno «statement, una dichiarazione di idee a favore delle differenze». Tutte cose giuste che suscitano clamore, attirano attenzione e smuovono il mondo della moda. Anche se «molte di queste erano già state fatte da Gautier anni fa». Ma appunto, oltre all’idea serve che lo spirito del tempo sia pronto.
Oggi lo è. «L’esigenza di inclusione, intercettata dalle aziende, viene dal basso. È un cambiamento culturale – solo il caso di mia figlia, citato all’inizio, ne è un esempio – e si traduce in nuove idee di business, anche profittevoli, come quello di Fenty. Soprattutto, si deve tradurre in un nuovo spirito aziendale, che promuova diversità. Averla significa far nascere nuove idee, che va detto: non sempre sono buone. Ma apre a orizzonti non considerati e a punti di vista nuovi. L’importante è che tutti i partecipanti, di età diverse, di provenienze e culture diverse, di generi e orientamenti diversi, sappiano agire con spirito di negoziazione».