Il fatto che Marco Travaglio si esprima in modo volgare e offensivo nei confronti di Mario Draghi, o di chiunque altro, non è certo il primo dei nostri problemi, non è per me personalmente motivo di particolare scandalo e di sicuro, in ogni caso, non è una notizia. È la norma.
Molto più significativa è invece l’attenzione con cui Roberto Speranza ha scelto le parole della sua presa di distanza – al chiaro scopo di non offendere Travaglio – definendo «uscita infelice» un discorso che cominciava con le parole «figlio di papà» e finiva con «non capisce un cazzo».
Sappiamo tutti cosa avrebbero detto – Speranza e molti altri – se le stesse testuali parole le avesse pronunciate Matteo Salvini, non è vero? O c’è forse qualcuno che avrebbe davvero il coraggio di mettersi al centro di un bel prato, sotto un cielo coperto di nuvole, dicendo ad alta voce che anche in quel caso si sarebbe parlato semplicemente di una «uscita infelice», senza timore di essere colpito da un fulmine prima ancora di essere arrivato alla sillaba «-sci-»?
Certo, è vero, c’è sempre Tomaso Montanari, illustre critico d’arte, commentatore di cose politiche per importanti giornali e televisioni, che ha passato il pomeriggio su twitter difendendo l’esattezza della definizione «figlio di papà», in quanto Draghi sarebbe stato compagno di classe di Luca di Montezemolo e Luigi Abete.
Siccome l’intero dibattito che ne è nato non ha contribuito a rafforzare la mia fiducia nella capacità del prossimo di cogliere il punto, ribadisco qui che trovo la questione assai poco interessante e per niente scandalosa, perché il punto non è se Draghi sia un figlio di papà, abbia i piedi storti o l’alito pesante; il punto è che questo è il genere di argomenti utilizzati dall’equivalente italiano dell’estrema destra trumpiana, che solo in questo sfortunato paese qualcuno può seriamente scambiare per sinistra, a cominciare da Montanari stesso, e temo nemmeno in malafede.
Prima di proseguire, devo purtroppo noiosamente precisare pure che il paragone con la destra trumpiana è comparazione squisitamente tecnica. Mi riferisco cioè a quel preciso mix di rovesciamento della realtà e hate speech che consente a Travaglio di presentare Draghi come l’incompetente – a paragone di Conte! – e al tempo stesso di associarlo a ogni possibile stereotipo capace di suscitare l’ostilità del pubblico («figlio di papà» che «non capisce un cazzo», a meno che non si parli di «finanza», in quanto ex «banchiere europeo»), esattamente come con Marta Cartabia (incapace di distinguere «un tribunale da un phon») e con ogni altro bersaglio gli sia mai capitato a tiro. Proprio come Donald Trump quando se la prendeva con Nancy Pelosi chiamandola «Crazy Nancy».
Tutto questo, dicevo, non è purtroppo una novità, e nemmeno un grande scandalo (lo scandalo, semmai, è che gente che utilizza questi sistemi ed esprime questa cultura venga spacciata come di sinistra, o addirittura come la vera sinistra).
Il problema è che Roberto Speranza è ministro della Sanità nel governo guidato dall’uomo al quale Travaglio ha rimproverato di non capire un cazzo, in particolare, proprio di sanità (oltre che di giustizia, ovviamente). E in quell’occasione era anche il padrone di casa, in qualità di dirigente di Articolo 1, che sarebbe il micropartito promotore della festa in cui il direttore del Fatto ha pronunciato la sua invettiva (anche micropartito è definizione tecnica, tenuto conto che Articolo 1 rappresenta metà, ma sarebbe più esatto dire un terzo, di Liberi e Uguali, formazione arrivata a stento oltre la soglia di sbarramento e già tornata a dividersi nelle due componenti originarie: Articolo 1 e Sinistra italiana).
È inoltre degno di nota che Travaglio sia stato invitato per essere intervistato, da solo, sul suo ultimo libro («I segreti del Conticidio»), dedicato all’illustrazione del come e del perché quelli che non capiscono un cazzo avrebbero complottato per rovesciare il governo di quelli che capivano tutto.
Ancora più rilevante è che la stessa kermesse prevedesse pure un significativo duetto tra Pier Luigi Bersani e Andrea Scanzi. Titolo del dibattito: «Quello che ci unisce: politica e non solo».
Incipit di Scanzi: «Sai cosa, Pier Luigi, io pensavo subito… vedendo tutte queste persone e questo affetto, io comincio proprio da qui: se te ne rendi conto, quanto sei apprezzato e quanto ti vogliono bene. Io lo capisco anche dai social: ogni volta che faccio un post su di te, decine di migliaia di like. È difficile che tu sia divisivo. Per carità, non piacerai ai fascisti, alla destra estrema, è ovvio, però c’è una stima nei tuoi confronti totale, come te la spieghi? Forse addirittura più di cinque, sei, sette anni fa. Perché tutto questo affetto? Perché piace così tanto, oggi, Pier Luigi Bersani?».
Ecco, il punto è proprio qui: quello che li unisce. Quello che unisce il partito fondato da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema al mondo grillino e paragrillino, anche sui social, vale a dire proprio quelli che nel 2012 Bersani definiva «fascisti del web», identificando nell’antipolitica il principale nemico della «riscossa civica» che il Partito democratico si proponeva di suscitare, e prendendosela con «tanti osservatori e commentatori che metton tutto nel mucchio», descrivendo tutti i partiti come fossero cadaveri ambulanti.
«Attenzione – alzava la voce l’allora segretario del Pd – nelle crisi ci può sempre essere la tentazione di vedere chi abbaia più forte, e anche con forme che possono nascere da tutti i lati ma finiscono sempre a destra. Io vedo, anche rivolto al nostro partito, voglio dirlo da qui, correre sulla rete dei linguaggi del tipo “siete degli zombi”, “siete dei cadaveri ambulanti”, “vi seppelliremo”, “vi seppelliremo vivi”: sono linguaggi fascisti, fascisti, e a noi non ci impressionano, non ci impressionano! Vengano a dircelo, vengano qui a dircelo! Via dalla rete, venite qui a dircelo!» (Festa dell’Unità di Reggio Emilia, 26 agosto 2012).
Allora, con indiscutibile precisione filologica, Bersani denunciava «un linguaggio che ricorda quello del ’19», riferendosi esplicitamente al primo fascismo. Un anno prima, in risposta a una domanda di Luca Telese, Massimo D’Alema scandiva: «Non parlo con la stampa tecnicamente fascista: non parlo, quindi, con Il Giornale, con Libero, con Panorama e con il Fatto» (il Fatto quotidiano, 22 luglio 2011).
Si può dire che da allora linguaggio, formule e stile di quel mondo – comunque lo si giudichi e lo si qualifichi – sia cambiato in modo significativo? Le recenti polemiche appena ricordate sono lì a testimoniare il contrario.
Dunque, che cosa è successo? Come è accaduto che i due dirigenti più strettamente identificati con l’orgogliosa difesa del ruolo dei partiti e della politica organizzata contro ogni suggestione antipolitica siano diventati i più strenui sostenitori di Conte, i più fermi alleati del Movimento 5 stelle e i più affezionati lettori del Fatto quotidiano?
Se la politica di questi anni avesse un senso, sarebbe stato naturale aspettarsi una simile convergenza, semmai, da parte del principale rivale di Bersani e D’Alema all’interno del Pd, da parte del teorico della rottamazione, che se la prendeva con i padreterni della sinistra. E in effetti, nella fase iniziale della sua ascesa, Matteo Renzi ha raccolto consensi significativi in quel mondo.
Da quando però il rottamatore è divenuto non più il guastatore, ma il leader della sinistra, tutto è cambiato. E i ruoli si sono rovesciati.
Con una differenza significativa, che è giusto segnalare: in fondo, Travaglio e gli altri intellettuali del populismo italiano non hanno fatto altro che lanciare contro Renzi, con perfetta coerenza, le stesse accuse a suo tempo rovesciate contro D’Alema. All’epoca della bicamerale parlavano di «Dalemoni», denunciando come un piano diabolico e para-eversivo il «patto della crostata» siglato dal leader della sinistra con Silvio Berlusconi. Nel momento in cui Renzi tentava la stessa strada, obiettivamente, non poteva stupire che il Fatto parlasse di «Renzusconi» e denunciasse come un piano diabolico e para-eversivo anche il «patto del Nazareno». Stupisce che lo facesse D’Alema.
Escluso dunque che i fascisti del web e il giornale tecnicamente fascista del 2011-2012 siano cambiati radicalmente da allora, non restano che due possibili conclusioni: o non lo erano neanche prima, e Bersani e D’Alema sbagliavano a qualificarli così, o sono cambiati loro.
In tal caso, però, bisognerebbe segnalare un ulteriore paradosso, perché vorrebbe dire che due dei dirigenti più impegnati nel combattere le derive populiste e antipolitiche della sinistra, per decenni, nella seconda parte della carriera avrebbero dato un significativo contributo a riportarla esattamente su quelle posizioni. Tra gli applausi, più che comprensibili, di chi su quelle posizioni è sempre rimasto.