Nel 1994 Marco Pannella disse a Berlusconi: «Silvio, se indietreggi ti prendono i soldi e ti mettono in galera». I soldi, almeno un po’, glieli hanno presi, e in galera non ci è finito giusto perché non aveva più l’età buona. Pannella intendeva dire che se Berlusconi si fosse dimostrato compiacente e più cauto nel dare corso alle riforme, anche e soprattutto in argomento di giustizia, avrebbe ottenuto anche più ostracismo e accanimento, e dunque tanto valeva combattere vantando un patrimonio di cose fatte anziché fare un passo indietro coltivando la mezza verità delle buone intenzioni riformatrici osteggiate da un sistema che remava contro.
Non lo ascoltò, e i risultati si sono visti: il processo delle mancate riforme trionfante nella legge che lo pedalò fuori dal Parlamento e lo distaccò al servizio sociale a Cesano Boscone.
È questa la caratteristica meno considerata tra le altre che accomunano la vicenda di Silvio Berlusconi a quella di Matteo Renzi: l’idea, identica nei due, che la cautela riformatrice servisse a mantenersi in convergenza parallela con il potere avversario, quello dei magistrati innanzitutto, sul presupposto erroneo che un trattamento a piccole dosi inibisse il lavoro degli anticorpi che invece ringalluzzivano davanti a quelle timidezze.
Renzi ha a sua volta creduto che per salvare la ghirba fosse opportuno lasciare quieta la piovra togata, tutt’al più inviandole qualche messaggio obliquo quando quella ha infilato un tentacolo in qualche pertugio associativo dei circoli nati intorno all’ex 41%: ma il comizio senatoriale che rivendicava il diritto dei politici di non farsi processare in piazza aveva il suono della recriminazione berlusconiana per l’assedio delle toghe rosse, un allarme che inopinatamente cessava quando il pericolo si allontanava dai cancelli di Arcore.
Oggi Renzi non ha più il potere di cui disponeva un tempo, e questo esaurimento si consuma sulla scorta del medesimo difetto riformatore, con una nuova indagine a suo carico che un’altra volta – et pour cause – fa seguito alla solita obliquità, quella che giusto qualche giorno prima lo aveva mandato a dire che «sta ragionando» sul firmare o no i referendum.
Ragionarci su anziché firmarli non ha impedito l’iniziativa giudiziaria ai suoi danni, ma firmarli anziché ragionarci su avrebbe dato segno, per quanto tardivo, di una consapevolezza: e cioè che per non stare sotto schiaffo non basta stare lontano da chi ha voglia di menare le mani, ma occorre fare in modo che le tenga giù.
A tacere del fatto – ma comprendiamo che è chiedere troppo – che dopotutto qualche rischio personale si può anche correre se il sacrificio è remunerato con l’acquisizione di riforme che servono a quelli che ti votano e non a quelli che ti processano. I quali, per altro e appunto, ti processano lo stesso. Te e la mamma, anche se poi il fatto non sussiste.