Da decenni, le ondate di calore si fanno sempre più frequenti, e sempre più drammatiche. Secondo uno studio, pubblicato a fine maggio sulla rivista scientifica Nature Climate Change, il 37% delle morti annuali legate a questo problema è da ricondurre al cambiamento climatico antropogenico.
Di più, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità tra il 1998 e il 2017 166mila persone sono morte a causa del surriscaldamento urbano. E il dato, già preoccupante, è destinato a crescere e a riproporsi sempre più di frequenza.
Prendiamo ad esempio il record raggiunto in Canada, dove poche settimane fa la colonnina di mercurio ha sfiorato i 50°. Secondo il professor Peter Stott del Met Office, questo evento nel periodo climatico preindustriale avrebbe potuto riproporsi una volta ogni 60mila anni. Oggi, invece, ogni quarto di secolo.
Tuttavia questo, come gli altri effetti del riscaldamento globale, si manifesta con modalità e intensità diverse, impattando molto spesso con maggiore violenza sulle aree più povere del pianeta o ma anche sulle minoranze etniche e i ceti meno abbienti che popolano il cosiddetto primo mondo.
Guardando più in profondità, è bene sottolineare che le disuguaglianze nell’impatto che il climate change ha sulla salute si registrano soprattutto nei centri urbani, luoghi che più di tutti soffrono l’innalzamento della temperatura, perché vittime delle cosiddette isole di calore, cioè di quel fenomeno, studiato per la prima volta dal farmacista inglese Luke Howard ai primi dell’800, per cui le città con almeno un milione di abitanti registrano temperature medie annuali di 1-3°C più alte rispetto alle aree rurali.
Ciò dipende da diversi fattori, come la diffusione di pavimentazioni impermeabili e l’impiego di materiali come asfalto e cemento, che immaganizzano grandi quantità di calore e non riflettono la radiazione solare. Decisivi nel favorire il fenomeno sono anche la mancanza di vegetazione, che invece renderebbe più ombreggiati i quartieri e favorirebbe l’evapotraspirazione, incentivando il meccanismo per cui una parte dell’energia solare viene impiegata per far appunto evaporare l’acqua contenuta nel suolo o nelle foglie, rendendo le superfici più fresche.
Altro fattore è la geometria delle città: nei centri dove si innalzano edifici più alti e vicini fra loro l’isola di calore è massima perché la radiazione solare che raggiunge la superficie urbana viene riflessa e assorbita più volte tra i muri dei palazzi. Infine, ad incentivare il surriscaldamento contribuisce pure il calore sprigionato dalle attività umane, ad esempio quello derivante dall’utilizzo dei mezzi di trasporto oppure delle caldaie.
È dunque l’insieme di questi fattori a creare le condizioni perché nelle città di tutto il mondo si verifichino, sempre più spesso, vere e proprie emergenze di salute pubblica legate alle alte temperature.
Come si legge sul Financial Times, negli Stati Uniti, dove da qualche anno è cresciuta l’attenzione sul tema delle disuguaglianze legate alla crisi climatica, è diffusa una situazione di disagio ambientale. Un problema per cui anche nella stessa città, nell’articolo del quotidiano britannico si fa l’esempio di Chicago e della massa di aria bollente che vi si abbattè nel luglio del 1995, una parte della popolazione è destinata a subire, e in alcuni casi soccombere, le ondate di calore, mentre un’altra può beneficiare della frescura garantita da quartieri urbani più verdi, popolati e sicuri.
Nell’evento di 25 anni fa, raccontato dal Ft, in cui persero la vita almeno 700 persone, l’ondata di calore non colpì tutti allo stesso modo. L’ha spiegato il sociologo Eric Klinenberg, che nel 2002 pubblicò “Heat Wave: A Social Autopsy of Disaster in Chicago”, opera in cui lo studioso si prodigò a indagare gli aspetti sottesi in quella catastrofe.
Klinenberg comparò due quartieri, adiacenti, della città più grande dell’Illinois: North Lawndale and South Lawndale. Le analisi condotte portarono il sociologo a cogliere perché il primo registrò un tasso di decessi, attribuiti all’ondata di calore, dieci volte superiore rispetto al secondo, nonostante entrambi fossero popolati prevalentemente da cittadini anziani, poveri, soli e non bianchi.
Ebbene, a differenza di South Lawndale, North Lawndale era una distesa desolata diventata avamposto delle gang locali dedite allo spaccio di stupefacenti. In un ambiente percepito come pericoloso e ostile, e privo di negozi in cui poter beneficiare gratuitamente di un po’ di aria condizionata, la popolazione rimaneva confinata in casa.
Viceversa South Lawndale, densamente popolata e brulicante di vita, era considerata sicura e dunque vissuta anche attraverso le strade e le attività commerciali che offriva. I residenti si sentivano tranquilli e liberi di ricercare frescura tanto all’esterno quanto all’interno delle proprie case, disposti ad aprire la porta a chi veniva a sincerarsi delle loro condizioni di salute.
Raccontando questa storia, il giornalista del Financial Times Tim Harford ha potuto spiegare che nonostante l’adattamento al cambiamento climatico abbia un costo, viste le ingenti risorse che richiede di mobilitare, investire per sostenere la vivacità dei quartieri, la piantumazione di alberi, la realizzazione di aree verdi, la riduzione della criminalità e il sostegno alle attività commerciali e alle imprese locali, è sicuramente un progetto in cui impegnarsi indipendentemente dalla crisi climatica. Insomma, un problema, che il climate change segnala e fa emergere, che si può affrontare mettendo in pratica anche a livello locale il principio dell’Agenda 2030 secondo cui «nessuno deve essere lasciato indietro».
A questo fine si potrebbe pensare di offrire sostegni economici per pagare le bollette dell’elettricità durante più caldi, dar vita a polmoni verdi urbani per garantire tregua dalla calura, informare la popolazione sui rischi che le ondate di calore comportano e sulle misure precauzionali da adottare. Soprattutto, favorire la coesione sociale e combattere la solitudine cronica, a volte preludio di morte.