Poco più di un anno fa negli Stati Uniti le strade di ogni città si popolavano di manifestanti. Pochi giorni dopo le stesse scene si sarebbero ripetute anche in Europa. L’omicidio di George Floyd da parte di un agente della polizia di Minneapolis aveva scatenato un’ondata di proteste che sarebbero poi sfociate in scontri con le forze dell’ordine, arresti, vandalismo.
Era giugno 2020 quando i manifestanti di Richmond abbatterono la statua di bronzo di due metri e mezzo di Jefferson Davis, primo e unico Presidente degli Stati Confederati d’America. Stessa sorte toccò ad altri simboli del passato confederato, in molti Stati del Sud.
Ovviamente l’omicidio di George Floyd non è stato un caso isolato, non è l’unico fattore che spinge verso questo tipo di atteggiamento. Gli omicidi di Trayvon Martin e Michael Brown; il massacro della chiesa di Charleston; il raduno Unite the Right a Charlottesville, in Virginia; l’assalto del 6 gennaio al Campidoglio, non hanno generato solo nuovi appelli alla giustizia. Hanno portato anche alla richiesta di un radicale ripensamento della storia degli Stati Uniti, e del posto che devono avere certi simboli – come, appunto, quelli confederati – nella vita pubblica di oggi. Una richiesta piuttosto trasversale: passa dalle inchieste storiche agli editoriali di studiosi accademici, dai media tradizionali ai feed dei social media.
In buona parte del mondo occidentale, i progressisti hanno spesso invocato lotte precedenti nei loro discorsi. Soprattutto negli Stati Uniti: Eugene Debs si vantava che i socialisti del 1908 «sono dove erano gli abolizionisti nel 1858»; Martin Luther King Jr. diceva sempre che la Dichiarazione di Indipendenza era un faro di uguaglianza democratica la cui luce rivelava quanto poco di essa gli Stati Uniti avessero raggiunto.
«Ma il modo di rapportarsi alla storia, soprattutto all’interno del discorso liberale, è cambiato. Piuttosto che scavare nel passato per imparare e determinare la politica di oggi, si cerca l’origine delle disuguaglianze attuali negli eventi del passato». Lo scrive la rivista Harper’s, in un lungo articolo pubblicato di recente, firmato dal professore di Storia della Princeton University, Matthew Karp. «Tuttavia, se il passato può vivere nel presente, questo non vuol dire che determini il nostro percorso: le nostre origini non sono i nostri destini».
L’autore dell’articolo spiega che il recente ribaltamento di prospettiva ha prodotto alcuni paradossi ideologici inaspettati. Cita l’esempio del progetto editoriale “Project 1619” del New York Times, che è stato annunciato come «l’esame più ambizioso dell’eredità della schiavitù mai intrapreso» in un giornale americano, fatto però da una testata il cui comitato di redazione alle ultime elezioni non era minimamente propensa a votare per il candidato più progressista tra i Democratici, cioè Bernie Sanders.
Più in generale, spiega il professor Karp, si vedono cambiamenti di approccio – rispetto alla storia – in tutto il quadro politico.
«I conservatori americani, da sempre ancorati alla storia, con l’arrivo di Trump hanno abbandonato molte delle loro antiche devozioni, oscillando invece tra incoerenza e nichilismo assoluto. I liberali, nel frattempo, sembrano aspettarsi più che mai dal passato. Lasciandoci alle spalle la Fine della Storia, siamo arrivati a una cosa molto simile a la Storia come Fine», si legge nell’articolo.
Molti Repubblicani si sono convinti, soprattutto dopo le proteste dello scorso anno, ad abbandonare la simbologia confederata: i Repubblicani del parlamento del Mississippi hanno votato in massa per rimuovere l’emblema confederato dalla bandiera dello Stato; la Nascar ha bandito la bandiera “Star&Bars” dai suoi eventi, nonostante un legame consolidato; alcune riviste di destra come National Review e The Federalist, da sempre difensori dei monumenti confederati, oggi sono popolate da autori conservatori che mettono in discussione o rifiutano questi simboli. Lo stesso National Garden of American Heroes, realizzato quando alla Casa Bianca c’era Donald Trump, conta 244 eroi americani, compresi Crispus Attucks a Muhammad Ali, ma zero confederati.
Certo, la devozione per alcuni simboli non è sparita del tutto, ma è rimasta isolata in poche sacche irriducibili della destra americana.
«C’è una razza nascente di politica di destra guidata da Trump che non si preoccupa molto del passato dell’America. Trump, dopotutto, riesce a malapena a ricordare in che periodo vissero quei presunti eroi. Il nazionalismo macho di “Make America Great Again”, sprezzante delle devozioni d’élite e sospettoso dei pignoli appelli alla tradizione, in realtà non ha bisogno di nulla se non di se stesso», si legge su Harper’s.
Eppure era appena vent’anni fa, durante un dibattito sulle primarie repubblicane nella Carolina del Sud, che George W. Bush aveva difeso il diritto dello Stato di sventolare la bandiera di battaglia confederata, ottenendo il giubilo del pubblico.
Oggi non sono i conservatori, ma i liberali americani, i più sinceramente impegnati nella storia del loro Paese. Solo che anche loro si sono evoluti, forse in modo ancora più evidente, nel rapporto con che li ha preceduti.
La narrativa liberale contemporanea prova a creare una versione della storia americana in cui ogni atto di brutalità (colonizzazione, schiavitù, le leggi Jim Crow) in qualche modo preparano il terreno per l’avanzata trionfante a venire (unità nazionale, emancipazione, diritti civili). Come se fosse un cammino obbligato, predestinato.
Nel saggio introduttivo di “Project 1619”, la giornalista Nikole Hannah-Jones osserva che «i neri americani hanno combattuto e raggiunto progressi sorprendenti, non solo per se stessi, ma per tutti gli americani».
Eppure il progetto non esplora davvero questa parte della storia: salta in gran parte il movimento antischiavista, la guerra civile e l’era delle battaglie per i diritti civili. Anche un simbolo come della cultura e della tradizione afroamericana come Frederick Douglass appare poco in “Project 1619”, e lo stesso Martin Luther King Jr. solo una volta.
«Se siamo ossessionati dalle origini – scrive Matthew Karp su Harper’s – ci troviamo di fronte a un problema intellettuale debilitante: queste non spiegano il cambiamento storico. Anche una celebrazione trionfante del 1776 come base della libertà americana non spiega come una splendida nuova repubblica divenne rapidamente la più grande società di schiavi nell’emisfero occidentale. Una storia che traccia una linea retta dal 1619, non può spiegare come quella stessa società americana di schiavi sia stata frantumata e polarizzata all’apice della sua ricchezza e del suo potere. Questo approccio al passato, come ha scritto lo studioso Steven Hahn, rischia di diventare una “storia senza storia”, sordo ai cambiamenti di potere sia rumorosi che silenziosi».
Frederick Douglass sapeva meglio di tutti che le narrazioni storiche contano nelle lotte politiche: modellano la percezione del terreno sotto i nostri piedi e l’orizzonte davanti a noi, aiutano a distinguere ciò che è possibile da ciò che non lo è.
Ma poi ha sollevato interrogativi su ogni lettura politica storica che provi a dettare le prospettive di cambiamento odierno: non era uno che disprezzava il passato, alla maniera della destra trumpiana, ma uno che rifiutava l’idea di trattare la storia come scrittura o Dna – per lui la storia era luogo di lotta. «Abbiamo a che fare con il passato solo perché possiamo renderlo utile al presente e al futuro», ha dichiarato Douglass.
In definitiva, conclude Matthew Karp nel suo articolo, «il passato può vivere nel presente, ma non governa la nostra crescita. Per quanto sordide o sublimi, le nostre origini non sono i nostri destini; il nostro viaggio quotidiano nel futuro non è fissato da archi morali o istruzioni genetiche. Dobbiamo arrivare a vedere la storia non come ciò in cui abitiamo o che ci determina, ma piuttosto come ciò per cui combattiamo, lottiamo e aspiriamo a onorare nelle nostre pratiche di giustizia. La storia non è la Fine; è solo un altro campo di battaglia in cui dobbiamo soddisfare le vaste esigenze del presente».