Concediamoci un lusso, l’ingenuità, e usiamolo per leggere l’interesse che la crisi afghana sembra aver suscitato tra gli utenti dei social network, in particolare di Instagram, e ancora più in particolare, tra quelli che, di loro, sono adolescenti o poco più. Un interesse che, in una settimana, non ha accennato a diminuire e, talvolta, si è intensificato.
Una settimana è assai poco, ma nella vita di una notizia equivale a un eone.
Domenica scorsa, quando i talebani entrano a Kabul, la giornalista Cecilia Sala fa una diretta Instagram dal suo profilo in cui parla, racconta, spiega quello che sta accadendo, insieme a Daniele Raineri, giornalista di Esteri del Foglio, esperto di Medio Oriente.
Sala ha meno di trent’anni, scrive per Il Foglio e collabora con Will, che è una piattaforma di informazione con un largo seguito su Instagram, molto apprezzata da venti-trentenni. In poche ore, Sala passa da 32mila follower a 60mila; in pochi giorni, da 60mila a 190mila. Sono numeri impressionanti: numeri e tempi da influencer. Che il profilo social di una giornalista che parla di guerra diventasse virale (scusate la parola) in così breve tempo era mai successo?
In un podcast live che ha realizzato per Chora Media, Sala ha detto: «Non avevo mai visto niente di simile, non mi aspettavo che a Ferragosto ci fossero migliaia di persone con domande da duemila battute sull’entrata dei talebani nella provincia di Kandahar, o sulla caduta di Herat, o sulle ragazze che, mentre i talebani avanzano, chiudono i social e corrono a comprare un burqa, e nemmeno mi aspettavo di vedere persone attivare notifiche Twitter delle varie fonti sul campo citate nelle stories, anche durante la notte e poi il giorno dopo e poi quello dopo ancora».
Dal 15 agosto, i profili di molti militanti, micro influencer e naturalmente anche giornalisti hanno preso a dare informazioni, opinioni, consigli per capire l’Afghanistan: non sempre si tratta di profili affidabili. Anzi.
Da questa vicenda, si ricavano alcuni interessanti oggetti d’indagine o almeno di riflessione. Il primo: il modo in cui Instagram può prestarsi al giornalismo, ovverosia il modo in cui il giornalismo può servirsi di Instagram e quante chance ha, se studia un piano di coordinamento e consolidamento di questa specie di ondata di affamati di sapere, di uscirne rinnovato, con una reputazione rinvigorita, e probabilmente anche una capacità d’ibridazione virtuosa con i social network (stando al caso Sala, le chance non sono poche: primo perché Sala è anche una giornalista di carta stampata o, se preferite, una “giornalista tradizionale”, e secondo perché, come ha detto lei stessa, molte persone si mostravano consapevoli del fatto che c’era da studiare, approfondire, informarsi altrove, e che questo altrove includesse soprattutto i giornali).
Il secondo: in che modo il giornalismo può ristabilire una gerarchia nella comunicazione, ribaltando la subalternità dell’informazione rispetto all’algoritmo.
Il terzo: quante problematicità apre – lo ha evidenziato bene il vice direttore del Post, Francesco Costa – il fatto che gli utenti fatichino a distinguere un divulgatore da un giornalista, un giornalista da un attivista, un attivista da un divulgatore.
Il quarto, che è quello su cui ci soffermiamo noi qui: se e come sono cambiati gli interessi e i consumi culturali, se e come in questo cambiamento hanno avuto un ruolo, per una volta positivo, gli stessi social network che, fino a poco tempo fa, accusavamo di sempiterna distrazione di massa.
Dice la voce della nostra pigrizia: tutto questo accorarsi per l’Afghanistan non è che il solito opportunismo lustra coscienze, per di più finalizzato alla mostra della propria bella eticità. Questo è pur sempre il tempo in cui tutti o quasi vogliono essere più buoni – femministi, ambientalisti, globalisti, ecologisti – e, soprattutto, guerreggiare standosene sul divano.
Questo è pur sempre il tempo in cui tutti o quasi firmano petizioni online, denunciano persone fatti e antefatti su Twitter presso appositi hashtag, fanno meme motivazionali, indossano magliette marxiste, protestano contro il razzismo mettendo un rettangolo nero come foto profilo. C’è un nome preciso per quest’ostensione di buoni principi e azione politica instagrammabile ed è slacktivism: attivismo per fannulloni.
Siamo ingenui ma non al punto da pensare che la settimana appena trascorsa dimostri che lo slacktivism è stato estirpato. Anzi. Ma è pur vero che l’imbellettarsi con le giuste cause e fare i rivoluzionari per pavoneggiarsi sono pratiche piuttosto antiche, e “The Dreamers” di Bernardo Bertolucci è lì a dimostrarcelo.
Se, finora, abbiamo tracciato e definito la sensibilità di tutti, e soprattutto delle nuove generazioni, proprio osservando cosa catturava la loro attenzione sui social, dobbiamo fare altrettanto adesso, e registrare che la generazione dei tiktokers, degli influencer e dei post influencer, davanti al collasso afghano usa tutti i mezzi che conosce per capirne di più: non intervenire e nemmeno scendere in piazza a dire la propria utilizzando slogan scippati ai genitori, bensì, prima di tutto, capire cosa sta accadendo.
Non è un caso che il Guardian abbia spiegato l’evolversi della crisi afghana anche su TikTok: ha intercettato una richiesta di informazione da parte di chi quel mezzo lo usa per fare sfide di ballo e di ricostruzione delle unghie.
In questi anni, i ragazzi si sono fatti seri o, il più delle volte, seriosi, talvolta moralisti e insostenibili e ideologici e ciechi. Corretti e anzi correttissimi. A volte, ridicoli. Dicevamo che era tutta facciata e algoritmo, tutta moda e cliché. Dicevamo: non sanno niente, parlano senza contezza dei fatti, del passato, del presente.
Sbagliavamo? Forse sbagliavamo.
Chiara Ferragni è stata la prima a intuire che il solo modo per mantenere e incrementare la sua influenza su Instagram era cominciare a occuparsi di come va il mondo, cosa che non può prescindere dall’informarsi su come va il mondo.
A volte, le forzature, le mode e le ipocrisie creano una coscienza: del resto, la creano anche disastrosi governi creati a tavolino per esportare la democrazia.
*Con questo articolo, Simonetta Sciandivasci ricomincia a scrivere su Linkiesta