Il secolo asiatico forse non è ancora cominciato. Nonostante per decenni la litania degli elogi e delle previsioni ottimistiche abbia riempito libri e giornali, la situazione reale dei Paesi dell’Asia non è così rosea. Da una parte il Covid ha contribuito a far esplodere la bolla: è vero che ha messo in difficoltà tutto il mondo, Occidente compreso, ma ha reso ancora più evidenti i limiti di un modello di sviluppo che bada poco ai diritti, alla lotta alle disuguaglianze e al rispetto ambientale.
Soprattutto, ha messo in luce alcuni ritardi strutturali troppo spesso dimenticati. In Indonesia, che una generosa previsione del Pew Research Center del 2017 per il 2050 collocava al quarto posto come potenza economica mondiale, l’esplosione dei casi dovuta alla variante Delta sta causando il tracollo degli ospedali, registrando clamorose carenze, come quella delle bombole di ossigeno. Eppure l’impennata era stata prevista con largo anticipo, proprio come era successo in India.
La verità, spiega l’ex giornalista e dirigente Vasuki Shastry, è che tutta la retorica pro-Asia era sempre stata esagerata. Certo, i dati economici erano (e sono) decisivi, ma quando si parla di progresso si intende qualcosa di più ampio. Per questo ha scritto un libro contrarian, fin dal titolo: “Has Asia Lost It?”. Un correttivo al peana collettivo pro-Asia, che punta piuttosto a mettere in luce i problemi dimenticati o trascurati (spesso non per caso) del continente.
La cosa più interessante è che l’ispirazione è precedente alla crisi pandemica. L’idea, spiega, gli è venuta mentre si trovava bloccato nel traffico a Mumbai. Quando domanda al guidatore del tuc tuc come sia la sua vita, la risposta lo sorprende: «Un inferno». Se prima progettava di scrivere un libro sullo status quo della situazione, quella confessione lo ha spinto a indagare tutte le mancanze che venivano messe da parte nei convegni (lui stesso ne ha organizzati parecchi) sul futuro asiatico.
Come sottolinea questo articolo di Asia Nikkei, lo studio è approfondito, le fonti sono di prima mano e lo sguardo coglie la complessità di un intero continente. La domanda del titolo però rimane inevasa: non è né un sì né un no. L’Asia, nelle parole di Shastry, è partita con il treno dello sviluppo su cui viaggiano migliaia di ricchi, ma dove non possono salire milioni di poveri. Un vero sogno asiatico, sulla falsariga di quello americano, non c’è. Non esiste e, forse, non ci sarà mai.
Perché i problemi sono numerosi e non si fermano ai vaccini insufficienti e alla ricaduta nella povertà di milioni di persone a causa del Covid. Non si parla mai abbastanza delle migrazioni interne, dove milioni di persone si spostano, anche solo a cadenza stagionale, per trovare lavoro. Poco spazio riceve anche la situazione di disparità femminile, profonda in alcune aree del subcontinente indiano, ma presente anche in Cina. Va affrontato anche il problema del terrorismo, islamico e non solo, l’instabilità politica di intere aree e l’assenza di democrazia in numerosi Paesi. Infine, la carenza nella cura ambientale rischia di rendere invivibile il benessere raggiunto con l’economia.
Sul piano della leadership, poi, secondo Shastry il problema principale è nell’età media dei capi politici. Quasi tutti nati intorno agli anni ’40 e ’50, cioè nell’epoca «della radio e del telegrafo». La distanza siderale, in termini di mentalità, rispetto alle giovani generazioni, è già di per sé una importante spaccatura che mina la stabilità sociale. E nemmeno un’eccezione riconosciuta come Joko Widodo, il presidente dell’Indonesia, è risultata duratura.
In conclusione il secolo asiatico, se mai sarà, dovrà svolgersi lungo una strada fitta di problemi. Il futuro, insomma, è «turbolento» e non ci vuole molto per capirlo. Oltre alle tensioni tra Cina e Stati Uniti, la repressione del Myanmar, la crisi innescata dal Covid, si aggiunge ora il ritorno sulla scena dei talebani. Dove proseguiranno tutte queste crisi è difficile da capire. Ma non è da escludere che portino lontano rispetto ai modelli più ottimisti di crescita. Anche quelli del Pew Research Center.