Dall’inizio del ventunesimo secolo la Cina ha dedicato tempo e risorse alla costruzione di legami diplomatici e commerciali con tutti i principali Stati del Medio Oriente. Oggi Pechino ha buone relazioni con l’Iran, Israele, l’Arabia Saudita e altri stati del Golfo. Una strategia regionale portata avanti con insistenza dal Partito Comunista Cinese da, come si è visto ad esempio nel primo viaggio in Medio Oriente di Xi Jinping nelle vesti di presidente della Repubblica popolare: era il gennaio 2016 e ha fatto tappa prima in Arabia Saudita e poi a Teheran, le due capitali più importanti dell’area. L’idea della Cina, almeno apparentemente, sembra quella di mantenere un rapporto di amicizia – se così si può definire – con tutti.
Un atteggiamento che farebbe pensare a una grande ambizione cinese in Medio Oriente per i prossimi anni: alcuni esperti ritengono che la regione possa diventare un obiettivo di Xi per riorientare la governance globale a proprio favore. Dopotutto quando si parla di Medio Oriente si indica un’area che è centro logistico, fornitore di carburante e potenziale punto di snodo del commercio globale.
Ma sarebbe sbagliato pensare che l’espansione cinese guardi all’area del Golfo e dintorni con lo stesso interesse che già ha per l’Estremo Oriente, dove è attore protagonista. «Date le disavventure militari statunitensi in Afghanistan, Iraq e altrove, le élite politiche cinesi hanno capito già molto tempo fa che le politiche regionali di Washington hanno indebolito la sua grandezza e ridotto la sua influenza globale: Pechino non vuole assolutamente seguire l’esempio», hanno scritto su Foreign Affairs gli analisti Steven A. Cook e James Green.
L’articolo della rivista di geopolitica si concentra sull’atteggiamento ambiguo della Cina in Medio Oriente, spiegando che nonostante il graduale disimpegno degli Stati Uniti difficilmente vedremo Pechino sostituirsi a Washington. Almeno non con le stesse modalità e lo stesso protagonismo adottati dagli americani negli ultimi decenni.
C’è una motivazione strutturale che impedisce un avvicendamento simile tra Stati Uniti e Cina, dicono gli autori: «La crescente presenza di Pechino è motivata non tanto da un desiderio di egemonia quanto da preoccupazioni economiche e di politica interna. I principali motivi della sua espansione sono la dipendenza dai combustibili fossili e il desiderio di coprire quanto sta accadendo nello Xinjiang con i musulmani uiguri».
La premessa d’obbligo, però, riguarda il ruolo degli Stati Uniti in questa vicenda: se Washington non avesse optato per un graduale disimpegno, Pechino avrebbe un margine di manovra molto più ridotto e probabilmente volgerebbe lo sguardo altrove.
È vero infatti che gli negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento di paradigma nella politica estera statunitense: il Medio Oriente non è più la priorità assoluta, Washington ha ridotto il numero delle truppe di stanza in Iraq e Joe Biden ha dichiarato di volersi concentrare solo su un numero limitato di obiettivi in quella regione.
Tuttavia, questo ridimensionamento viene costantemente controbilanciato, in patria, da una schiera di analisti, editorialisti e leader politici che temono una sostituzione netta Stati Uniti-Cina in quel quadrante: «In Medio Oriente come altrove, sostengono, gli Stati Uniti devono contrastare il potere militare, l’influenza economica e l’ideologia della Cina, in ogni momento, per timore che Pechino sostituisca Washington come superpotenza globale preminente: alcuni credono che la regione sarà tra i luoghi in cui si svolgerà una cosiddetta competizione tra grandi potenze tra Washington e Pechino», si legge su Foreign Affairs.
Ora, le questioni strettamente cinesi. Ciò che realmente guida la presenza della Cina in Medio Oriente sono prima di tutto motivazioni economiche. Tra il 1990 e il 2009, le importazioni cinesi di petrolio dal Medio Oriente sono aumentate di dieci volte. Nel biennio 2019/20, i Paesi del Golfo hanno provveduto a circa il 40% delle importazioni di petrolio della Cina, di cui il 16% proveniva dalla sola Arabia Saudita, che quindi è il più grande fornitore di petrolio greggio per Pechino. L’Iraq, Paese in cui gli Stati Uniti hanno speso migliaia di miliardi, è tra i primi cinque fornitori di petrolio della Cina, mentre l’Iran è all’ottavo posto.
Ovviamente non c’è solo il settore energetico: la Belt and Road Initiative ha portato Pechino a diventare il singolo più grande investitore della regione e il più grande partner commerciale di 11 Paesi del Medio Oriente, dall’Egitto all’Oman, dall’Arabia Saudita agli Emirati.
«Gli imperativi economici della Cina in Medio Oriente, insieme alla diplomazia necessaria per mantenerli, spiegano molto del suo recente intervento nella regione», scrivono gli autori dell’articolo, sottolineando lo spazio e la priorità che hanno le questioni interne in questa nuova proposta diplomatica.
La Cina vede i suoi nuovi legami internazionali come una polizza assicurativa contro una potenziale minaccia interna: vuole impedire un movimento separatista tra uiguri, prevalentemente musulmani, nella regione autonoma dello Xinjiang.
Pechino ha iniziato la sua brutale campagna di repressione contro la popolazione uigura a seguito degli attacchi terroristici del settembre 2001 negli Stati Uniti e ha intensificato questa campagna a seguito di un’ondata di attacchi compiuti dai separatisti uiguri in Cina e nei paesi vicini nel 2014 e 2015. Oggi abbiamo imparato a riconoscere la brutalità cinese nello Xinjiang – detenzione arbitraria, sterilizzazione forzata, tortura, lavoro forzato – come un crimine contro l’umanità e un genocidio in atto.
«I leader cinesi – si legge su Foreign Affairs – sperano che coltivando legami più stretti con i regimi mediorientali e dell’Asia centrale si possa impedire il sostegno ai separatisti uiguri e soffocare le reti islamiste transfrontaliere. Per ora la strategia di Pechino sembra funzionare: grazie agli sforzi diplomatici, gli acquisti di idrocarburi e gli investimenti su larga scala, Pechino è riuscita con successo a dissuadere i governi e le organizzazioni religiose nei Paesi a maggioranza musulmana dal fornire supporto al popolo uiguro».
Ovviamente Washington non può far finta di nulla e pensare soltanto al suo disimpegno dalla regione.
Intanto perché la leadership cinese rimane impegnata nella modernizzazione militare e nelle piattaforme di proiezione del potere: la partecipazione cinese a una task force antipirateria nel Golfo di Aden, ad esempio, può essere letta come un impegno alla collaborazione internazionale, ma anche come un’esperienza che aiuterà a preparare la marina cinese per future missioni lontano dalla costa cinese.
«Gli Stati Uniti e la Cina – conclude l’articolo di Foreign Affairs – hanno chiaramente interessi diversi in Medio Oriente, ma l’idea che Pechino voglia soppiantare Washington nella regione semplicemente non è supportata dalle prove disponibili. La leadership cinese perseguirà i suoi obiettivi indipendentemente dai desideri di Washington: è improbabile che i cinesi cerchino un conflitto, anzi preferiranno costruire relazioni con i Paesi della regione. Il risultato sarà una grande lotta con gli Stati Uniti per l’influenza, mentre le potenze regionali si muoveranno tra Washington e Pechino sperando di evitare di dover scegliere a chi essere più vicina. Nella misura in cui i leader mediorientali rimarranno ben predisposti verso Washington, gli Stati Uniti manterranno il sopravvento in quest’area. Ma non è detto che debba essere così per sempre».