La crisi politica e umanitaria in Afghanistan ha sollecitato i leader occidentali, che sul tema hanno espresso posizioni differenti: Joe Biden ha spostato l’attenzione sul fatto che tutti gli americani sono stati perlomeno portati in salvo; Boris Johnson ha chiesto che nessuno riconosca a livello bilaterale l’emirato talebano; Angela Merkel ha ammesso che l’operazione nel paese mediorentale è stato un fallimento collettivo dei membri della NATO; Mario Draghi ha chiesto collaborazione a livello europeo per l’accoglienza dei rifugiati.
Invece Emmanuel Macron in diretta dalla sua residenza estiva ha espresso preoccupazione circa i previsti «flussi migratori irregolari» che potrebbero arrivare in Europa dall’Afghanistan. Un discorso più duro del previsto contro i profughi hanno stupito molti osservatori, soprattutto perché nella stessa giornata avevano fatto il giro del mondo le immagini drammatiche delle migliaia di persone ammassate all’aeroporto di Kabul nel tentativo di lasciare il paese, anche a costo di aggrapparsi ai carelli degli aerei, andando incontro a morte certa.
La Francia si interroga sulle parole di un leader liberale, che con il suo movimento, En Marche!, aveva stravolto il dualismo tra repubblicani e socialisti che ha caratterizzato tutto il periodo della Quinta Repubbica. Su Twitter il presidente è stato immediatamente rinominato “Emmanuel Le Pen”, lasciando intendere che Macron sta cercando consensi dagli elettori di destra, in vista delle elezioni del prossimo anno. Anche Edward Snowden ha usato questo nomignolo, ritwittando il post della giornalista Feïza Ben Mohamed. Le critiche sui social sono state così numerose da spingere il presidente francese a pubblicare un altro video per chiarire che «la Francia sta facendo e continuerà a fare il suo dovere per proteggere coloro che sono più minacciati».
Non è la prima volta in cui Macron viene accusato di cercare i voti della destra: già la settimana scorsa avevano fatto alzare più di un sopracciglio le sue dichiarazioni a margine dell’omicidio, a Saint-Laurent-sur-Sèvre, di padre Olivier Maire, ucciso da un uomo responsabile del rogo della cattedrale di Nantes lo scorso anno. In quell’occasione, Macron aveva espresso vicinanza alla comunità religiosa monfortana, affermando che «Proteggere chi crede è una priorità», generando decine di commenti indignati da parte della comunità atea e agnostica.
Macron sta dunque cambiando la sua linea politica in vista dell’imminente appuntamento elettorale? Non proprio. Almeno secondo il politologo e storico svizzero Joseph de Weck, che nel suo saggio, edito solo in lingua tedesca “Emmanuel Macron, der revolutionäre Präsident”, parla di quanto l’inquilino dell’Eliseo sia sempre stato atipico, ineffabile, quasi difficile da inquadrare per gli elettori francesi.
De Weck spiega che Macron aveva solo dodici anni quando il crollo del Muro di Berlino pose fine alla contrapposizione tra potenze liberali e socialiste. Questo ha sicuramente contribuito a rendere fluida la sua concezione di politica. In un’intervista al quotidiano swissinfo.ch De Weck spiega che questa sua volontà di rendersi terzo rispetto al più classico dei dualismi è evidente nelle politiche economiche di Macron, figlie del suo periodo all’interno della banca d’affari Rothschild & Cie.
Durante quell’esperienza, che lo vedrà responsabile di una delle contrattazioni più importanti della storia francese, quella tra Pfizer e Nestlé, per un totale di 11,9 miliardi di euro, Macron ha compreso le falle del capitalismo contemporaneo, iniziando a plasmare quello che è poi diventato il suo modus operandi. Le politiche sociali correlate ai fattori economici sono andate più a fondo rispetto a quelle del suo predecessore, il socialdemocratico François Hollande: Macron ha infatti ridotto le tasse sul capitale, aumentato lo stipendio e le pensioni minime, liberalizzato diversi settori del mercato del lavoro.
Questo però ha complicato il suo lavoro e ha attirato le critiche sia da chi a destra lo vede come un progressista, sia da chi a sinistra non vuole sostenere un “neoliberista” (qualsiasi cosa voglia dire).
Macron in realtà è sincretico, è sia l’uno che l’altro: non a caso En Marche! si definisce un partito di centro, che coglie spunti da entrambi gli schieramenti. Il presidente, leader di una forza politica che nel 2017 era nuova, spesso accentra le attenzioni su di lui, ma non rinnega nessuno dei suoi predecessori: smantella l’ENA, la scuola di formazione d’élite voluta da Charles De Gaulle e ne fonda un’altra che permetta l’accesso con borsa di studio a chi è svantaggiato; si scusa per aver taciuto sui genocidi in Rwanda e desecreta i rapporti sulla guerra d’Algeria; critica apertamente Sarkozy, ma rimane d’accordo con lui sulla meritocrazia, affermando che “chi lavora di più guadagna di più”; porta avanti l’europeismo di Giscard D’Estaing, adattandolo ai tempi odierni; prende schiaffi alle manifestazioni e si isola a Versailles quando viene contagiato dal Covid.
Un personaggio molto complesso, che sfugge alle logiche di chi vorrebbe definirlo di destra o di sinistra e che, proprio per questo, proprio perché non riesce – o non vuole – trovare uno schieramento tradizionale, suscita un odio viscerale nei suoi detrattori. Certo, i risultati delle elezioni regionali hanno segnato un flop dei macroniani, al pari di quello del Front National di Marine Le Pen (dal 2018 “Rassemblement National”), ma le partite da giocare sono ancora molteplici. Su tutte, la lotta al cambiamento climatico, la riconciliazione con le ex colonie africane e la lotta al fondamentalismo islamico rappresentano le sfide più insidiose per un presidente giovane che ha in ogni caso segnato una discontinuità con il passato. Amato da pochi e osteggiato da più fronti, Emmanuel Macron è indubbiamente il primo presidente postideologico di Francia. I sondaggi per ora non lo premiano, ma c’è ancora un anno per rimettersi in marcia.