Lingua morta a chi? Malgrado la Brexit, il Regno Unito ha appena annunciato un programma da quattro milioni di sterline per espandere l’insegnamento del latino negli istituti pubblici. Londra ha lasciato l’Ue ma riafferma le sue radici culturali nei programmi scolastici. Prima della finale degli europei persino un tabloid come il Daily Star ha risposto così alla domanda «Cosa hanno mai fatto i romani per noi?». E giù l’elenco: «a parte gli acquedotti, la nettezza urbana, le strade, i sistemi d’irrigazione, il vino buono, le terme, le belle donne…».
Il ministro dell’educazione di Downing Street, Gavin Williamson, ha motivato così la riforma: «Il latino ha una reputazione di materia elitaria, riservata solo a pochi privilegiati, ma può dare così tanti benefici ai giovani che vogliamo porre fine a questa disparità». Se infatti il latino è previsto quasi in una scuola privata su due (49%), figura nelle lezioni di solo il 3% delle scuole di Stato. La Gran Bretagna è molto simile agli Stati Uniti per la scrematura sociale che comincia tra i banchi. Da qui il progetto pilota in quaranta istituti, per ragazzi dagli 11 ai 16 anni, che partirà a settembre 2022.
Williamson è stato contestato con il solito adagio benaltrista «la pubblica istruzione ha problemi più seri»; il suo tasso di gradimento tra i conservatori era già il più basso tra i ministri del governo guidato da un classicista come Boris Johnson (memorabile il suo intervento in un dibattito sulla superiorità tra Roma e la Grecia). In ogni caso, il 65% delle parole inglesi ha etimologia latina e, come pubblicizza il sito di qualsiasi scuola, per chi parla una lingua di ceppo germanico può essere un passe-partout per impararne altre neolatine.
«Questa notizia contraddice felicemente quella che purtroppo è una tendenza diffusa: ridurre continuamente lo spazio dello studio delle discipline umanistiche, letterarie e filosofiche – spiega Alessandro Agus, docente e direttore scientifico dell’Istituto italiano di studi classici di Roma e professore della pontificia università della Santa Croce –. Abbiamo esperienza diretta dai nostri studenti inglesi, riscontrano che un numero elevatissimo di vocaboli è quasi lo stesso. È importante questa coscienza linguistica: solo chi parla bene può pensare bene e solo chi pensa bene può parlare bene. Essere consapevoli delle proprie origini linguistiche è sempre un fattore di libertà. Poi bisogna capire qual è lo spirito autentico: auguriamoci non sia solo un intento archeologico, ma rinnovare lo spirito della classicità».
E nel resto d’Europa viene ancora insegnato il latino? In Francia, il latino è una lingua a scelta alle superiori. In Germania, è una delle opzioni al ginnasio: un terzo degli alunni la studia durante la sua formazione, viene subito dopo inglese e francese, e molte università richiedono una certificazione tra i requisiti d’accesso. In Spagna è obbligatoria per chi frequenta studi umanistici al Bachillerato, gli ultimi due anni di liceo.
In Belgio, c’è una distinzione tra le regioni fiamminghe e francofone: è una materia opzionale, ma viene scelta soprattutto nel primo caso, sul modello dei Paesi Bassi, dove nelle scuole superiori d’élite è affiancata al greco per i primi tre anni (poi gli studenti possono scegliere in quale specializzarsi). Nella Grecia che, conquistata, conquistò i vincitori, il latino è obbligatorio per chi vuole studiare legge, scienze politiche e sociali o materie umanistiche all’università ed è decisiva nei test d’ingresso a queste facoltà. Qualcosa di analogo avviene in Polonia, con l’aggiunta di medicina, veterinaria e lingue.
Nell’equivalente continentale del «ginnasio» continua a comparire il latino in molte nazioni, come Danimarca, Svezia, Islanda, Austria, Macedonia del Nord, Ungheria, Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Romania e Portogallo. Recentemente, la sua popolarità è cresciuta negli Stati Uniti, mentre in Asia, dove lo portarono soprattutto i gesuiti, è rimasto a lungo appannaggio delle università cattoliche. Dal 2009, l’università di Pechino ha aperto un centro di studi chiamato Latinitas Sinica.
«C’è sempre un fascino quasi sotterraneo che esercitano le lingue classiche, per noi italiani soprattutto il latino – racconta il direttore scientifico dell’Istituto italiano di studi classici di Roma –. Noi lo insegniamo attraverso l’uso attivo, crediamo ci sia un amore per lo studio di queste lingue anche molto profondo che coinvolge tanti ragazzi, li spinge a faticare per provare a esprimersi in quelle lingue, trovare il gusto del suono per arrivare a un contatto diretto con la letteratura. Abbiamo studenti da oltre 50 nazioni nel mondo, anche giordani, palestinesi, siriani. La lingua e la cultura di Roma esercitano un fascino trasversale, anche fuori dall’Europa, in tutto il mondo, fino alla Cina».
A livello europeo, ogni tanto qualcuno propone il latino tra le lingue ufficiali dell’Ue. Uno degli ultimi è stato il ministro agli Affari europei Clement Beaune, ma la boutade è l’ennesimo dispetto di Parigi che non ha ancora perdonato la Brexit ai rivali di sempre e spera di rimpiazzare l’inglese con il francese. Non ci perdoneranno il mondiale del 2006, ma gli eredi di Vercingetorige sono pronti a riabilitare Giulio Cesare.
Su Reddit c’è un thread dedicato alla questione, dove assieme ad analisi lucide – per esempio, come nessun patriottismo deteriore sia collegato a una lingua morta e condivisa – si sollevano dubbi sulla capacità della classe politica di Bruxelles e Strasburgo di maneggiare il latino per scopi politici. Per ora, è in latino il titolo (Juvenes Translatores) del concorso per giovani traduttori organizzato dalla commissione europea.
«Sono proposte astratte e antistoriche – commenta Angus a proposito del latino come lingua ufficiale dell’Ue –. Sarebbe impossibile da realizzare e controproducente per il dibattito politico, sono argomentazioni capziose e sofistiche. Latino e greco sono lingue morte e in questo sta la loro grandezza. Tramandano un patrimonio immortale ed eterno, ma non possono essere riesumate perché nessuno le parla».
Da italiani potremmo fare di più. «Noi siamo eredi di questa storia, siamo il giardino in cui è nata. Si può risvegliare la passione di tanti ragazzi con metodi di insegnamento più efficaci, è auspicabile un rinnovamento delle metodologie didattiche che possano superare la noia che molti studenti provano e guidarli al punto fondamentale: l’accesso al patrimonio letterario più importante della storia d’Europa. Uno scrigno di umanità e libertà. Dobbiamo trasmettere ai giovani che la cultura classica non è l’opposto della modernità o della cultura scientifica, ma è libertà, la contraddizione della barbarie, cioè lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della tecnica o del capitale sull’uomo. La classicità è l’argine che impedisce di rendere l’uomo una macchina, o semplicemente un consumatore di bisogni materiali».
Si parva licet, come «proudly elitist publication» Linkiesta (citazione dal New York Times) sta contribuendo alla resistenza culturale con la rubrica in latino O tempora, o mores firmata da Francesco Lepore.