C’è una differenza importante, che merita di essere sottolineata, tra quello che attende i cittadini elettori di Roma e quelli di Milano il prossimo 3 ottobre con le elezioni comunali. I romani avranno la facoltà di scegliere il governo dell’Urbe; non poca cosa, ma solo questo. Ai milanesi invece questo voto offre qualcosa di diverso; oltre a scegliere i consiglieri e un sindaco che, salvo grandi sorprese, avevano già scelto cinque anni fa (e che ogni persona non tanto di sinistra quanto di buon senso è convinta vada confermato) oltre a questo dicevo, i milanesi hanno la possibilità il 3 ottobre di mettere in moto di una svolta riformista, per il futuro di Milano ma anche per quello dell’Italia.
Infatti è da Milano, laboratorio elettivo di quasi tutte le sperimentazioni della politica italiana, che ha preso vita l’unione convinta di forze civiche e partiti riformisti, liberaldemocratici ed europeisti, in un unico soggetto, che occupa lo spazio politico confinante da un lato con le posizioni riformiste in seno al Partito Democratico, e dal lato opposto con le posizioni non sovraniste di Forza Italia e Lega.
Questo soggetto si è costituito nella lista “I Riformisti” alle comunali del 3 ottobre, sostiene Sala sindaco, ha capilista donne sia al Comune che ai Municipi, ed è un’occasione da non perdere, una miccia virtuosa da accendere.
Le buone ragioni per fare questa scelta stanno in tre “codici genetici” del riformismo, che si collocano a monte dell’azione pubblica e costituiscono la premessa fondante di questo modo di intendere la politica.
Il primo è il codice della responsabilità, ossia l’intenzione di rompere la trappola populista che affligge la politica. E che si esprime così: «dico e faccio la cosa sbagliata purché mi dia consenso». Si vedano reddito di cittadinanza, riduzione parlamentari, quota cento e compagnia cantante. La vocazione riformista, forse proprio per questo storicamente minoritaria, è di dire le cose come stanno e non come piacciono, e trarne con fermezza le conclusioni e le misure di governo.
Il secondo è il codice dell’innovazione, ossia l’intenzione che rompe la radicatissima trappola conservatrice, la quale a sua volta si esprime così: «Non sostengo un cambiamento utile per non ledere interessi miei o a me affiliati, per prudenza, per realismo, per evitare contrapposizioni; magari ne parliamo l’anno prossimo». Ogni riferimento è puramente casuale. L’opzione riformista è allergica alla melina, al rinvio continuo, al fatalismo cinico e gattopardesco, e crede nel potenziale di autotrasformazione delle comunità.
Infine, terza ragione per la scelta riformista è il codice dell’apertura, l’antidoto alla trappola sovranista, identitaria, del Prima Noi! La città aperta, il mondo aperto, l’economia aperta e via dicendo, sono come nodi di quella grande rete che ormai tutti, volenti o nolenti, abitiamo e per la quale abbiamo bisogno del continuo apprendere, adattarci, cambiare, che è la base del riformismo. Il contrario di ogni tipo e forma di chiusura.
Di tutto questo, dei tre codici, e del superamento delle tre trappole, la nostra Milano ha certamente bisogno. La città avrà bisogno di riformismo per rompere gli antichi gap di qualità tra i quartieri (cultura, trasporti, arredo, servizi, comunità, tra gli altri). Ne avrà bisogno per compiere un balzo in avanti nelle piattaforme di cittadinanza, specie su base digitale. E ancora ne avrà bisogno per riformarsi verso un assetto di grande area metropolitana integrata, e non di comune contornato di satelliti.
Ma sarebbe folle fermarsi qui, sui confini della metropoli, e non vedere la prospettiva di un’evoluzione possibile. E qui va detto con chiarezza che la Lista Riformista è l’unica, tra quelle presenti sulla scheda elettorale, a offrire al cittadino milanese la possibilità di avviare una svolta che è anche regionale, e anche nazionale.
Perché l’affermazione riformista al Comune di Milano farà nascere in modo naturale la candidatura e la rete di alleanze per una nuova guida della regione Lombardia, regione provata da anni di errori e incompetenze della politica forzista e leghista, e messa in ginocchio durante la tragica gestione della prima ondata della pandemia.
E anche perché la strada riformista è l’unica che può consentire all’Italia di fare di questo decennio gli autentici roaring twenties di cui abbiamo bisogno per contrastare il declino socioeconomico del paese. Chi altrimenti, poniamoci la domanda, potrebbe contribuire a superare le resistenze granitiche a riforme come quella della scuola, della burocrazia, del fisco, della giustizia civile? Chi, se non una coalizione ad alto tasso di riformismo potrebbe riaprire il confronto sulla madre di tutte le riforme, ossia quella dell’assetto istituzionale dello stato?
Non temiamo lo scherno che spesso colpisce chi parla di riforme in Italia. Ci danno conforto alcune condizioni del contesto, che sono favorevoli, e che non promettono sconti. La prima sono le minacce che ci circondano, da quella climatica a quelle geopolitiche e del commercio mondiale. Riformarci è questione di sopravvivenza.
Poi le risorse: questo è un tempo di irripetibile opportunità per la finanza pubblica; e grazie al cielo c’è un’Europa e uno staff di governo che vigila su come saranno investite queste risorse, e soprattutto che ci ricorda con paziente tenacia che i fondi arrivano a fronte di riforme strutturali e non per distribuzioni a pioggia.
Poi c’è il crepuscolo dell’uno vale uno, la figuraccia storica della politica del Vaffa e del No-Tutto. La sensazione è che la gran parte degli italiani abbia appreso la lezione, e che non abboccherà più tanto facilmente a breaking news come “Forza gilet gialli” o “Sconfitta la povertà”. Il totale fallimento politico del grillismo apre ad una fase progettuale diversa.
Poi c’è l’indice meno diffuso dai tg, ma di gran lunga più inquietante: quello demografico. Oltre che più poveri stiamo divenendo più vecchi e meno numerosi. È esattamente questo che vogliamo?
E infine, tra le condizioni del contesto favorevoli ad una svolta riformista ci va messo pure Mario Draghi, che sta portando una straordinaria influenza culturale alla politica italiana. Sta guidando il governo con i tre codici descritti prima, responsabilità, innovazione e apertura. E sta mostrando con l’azione quotidiana che il cambiamento è possibile, che non necessariamente tutti devono essere d’accordo e che chi governa bene non guarda i sondaggi un giorno sì e l’altro sì.
Un pensiero conclusivo. L’unità delle forze riformiste, a cui abbiamo lavorato per sei mesi, non è stata né facile né indolore, lo possiamo garantire. Ha comportato che ognuno dei promotori, dei militanti, dei candidati, sapesse anche osservare sé stesso, le proprie abitudini mentali, i propri orticelli. E sapesse lasciarli andare, per qualcosa di più grande. E così è avvenuto. E anche questo è riformismo, ed è pure una buona notizia.