Al di là delle dichiarazioni scontatamente trionfalistiche del ministro della Cultura Dario Franceschini, ha fatto il giro del mondo, e non poteva essere altrimenti, la notizia della scoperta pompeiana della tomba di Marcus Venerius Secundio nell’ambito di una campagna di scavo condotta dall’Università europea di Valencia e coordinata da Llorenç Alapont, docente presso il relativo Dipartimento di Preistoria e Archeologia. Scoperta, questa, che tiene dietro a quella pur recente e importante del Termopolio con l’iscrizione «Nicia cinaede cacator».
Rinvenuta presso la necropoli di Porta di Sarno, da cui usciva via dell’Abbondanza, il complesso sepolcrale è strutturato in un recinto in muratura, alle spalle della cui facciata principale è addossata la piccola camera funeraria (1,6 x 2,4) del proprietario, ivi inumato. Nella restante parte sono state invece rinvenute due urne cinerarie, di cui una raffinatissima in vetro segnalata dall’iscrizione Novia Amabilis, forse moglie o comunque congiunta del defunto titolare.
Ma ad aver destato corali interesse e stupore – che nulla hanno a che vedere con certo sensazionalismo mediatico, declinato nell’ottica di giallo o mistero – sono tanto l’epigrafe commemorativa quanto la sepoltura di Marcus Venerius Secundio. In riferimento all’inscriptio il testo integrale, che di seguito si riporta, ne offre valida riprova diretta a fronte di quanto già spiegato, peraltro ottimamente, dal direttore del Parco archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel: «M(arcus) Venerius coloniae lib(ertus) Secundio aedituus Veneris et Augustalis min(ister) eorum hic solus ludos Graecos et Latinos quadriduo dedit». Che potrebbe rendersi in «Marco Venerio Secundione, liberto della colonia, custode del tempio di Venere e augustale, ministro di entrambi i culti. Questi da solo offrì per quattro giorni spettacoli scenici in lingua greca e latina».
L’elemento di novitas è costituito dalla menzione dei ludi Graeci: si tratta infatti della prima attestazione documentale di un uso pompeiano, finora dato per altamente probabile sulla base di innumerevoli considerazioni. Ecco perché, pur incontrovertibile, tale novitas va comunque sfrondata da eccessive sopravvalutazioni, come fa notare a Linkiesta Luca Arcari, professore associato di Storia del Cristianesimo presso la Federico II di Napoli. «L’uso (al di fuori dell’Urbe) della recitazione di testi in greco lungo tutta la penisola – osserva – è attestato per il I secolo da fonti letterarie come il Satyricon di Petronio o le Satire di Giovenale. Si tratta indubbiamente di una pratica che, sempre più diffusa in età imperiale, è propria di élite colte, capaci di leggere e comprendere il greco. Pratica che è inoltre ricavabile dalle fonti archeologiche: basti pensare alle rappresentazioni vascolari con scene di tragedie greche e iscrizioni in quella lingua. Non si comprende come ne potesse essere esente proprio un centro sotto ogni aspetto vivace quale Pompei».
Aspetto, questo, rimarcato anche da Fabrizio Pesando, archeologo e pompeianista illustre, che, ribadendo il carattere di Pompei quale città trilingue (latino, greco e, con ogni verisimiglianza, osco), ricorda a Linkiesta l’importanza documentale indiretta di iscrizioni come quelle conservate nella Casa degli Epigrammi Greci o di pitture parietali come quelle della Casa del Menandro, così chiamata, ça va sans dire, dall’effigie del commediografo ateniese nell’esedra centrale del peristilio accanto a quella (con ogni probabilità) del tragico Euripide.
Secondo il professore ordinario de L’Orientale non bisogna poi «dimenticare che siamo comunque in un’area in cui il greco era abbastanza diffuso: basti pensare alla vicina Neapolis. Ciò non pregiudica l’importanza dell’epigrafe, che resta la prima attestazione diretta della messa in scena di spettacoli in lingua greca a Pompei».
L’inscriptio permette inoltre di ricostruire il profilo biografico di Marcus Venerius Secundio, già conosciuto con la variante nominale Secundus e con la qualifica di schiavo pubblico della colonia Veneria Cornelia prima, liberto poi, attraverso due tavolette cerate del banchiere pompeiano Cecilio Giocondo, la prima datata 14 marzo del 53 d.C., la seconda probabilmente ascrivibile al febbraio del 60 d.C.
In quest’ultima è attestato come M. Venerius Secundus: ottenuta la libertà, questi aveva assunto il gentilizio Venerius derivato dalla titolatura della città affrancatrice, quella colonia, cioè, Veneria Cornelia Pompeianorum secondo il nome assunto con la conquista di Lucio Cornelio Silla poco meno di un secolo prima. Sulla base dell’epigrafe si apprende che questo ricco liberto pubblico era divenuto aedituus, cioè custode del principale tempio pompeiano, quello di Venere, e augustale, ossia componente del collegio sacerdotale dedito al culto imperiale.
Vi si veniva eletti annualmente dal senato decurionale dopo esborso di una somma di denaro al locale erario: ma non si fermavano qui le spese che aveva da sostenere l’augustale, comprese quelle per l’organizzazione di spettacoli teatrali, giochi e banchetti pubblici in onore dell’imperatore e della gens Iulia.
Alla luce di tutti gli elementi finora indicati e della prima analisi delle spoglie di Marcus Venerius Secundio, che sono quelle di un uomo adulto di più di 60 anni, si è potuto dedurre che la sepoltura è certamente successiva al terremoto del 62 d.C. e comunque collocabile nei due decenni antecedenti la distruttiva eruzione del 79.
E sono proprio lo scheletro ottimamente conservato del defunto, con resti mummificati e capelli, e la modalità funebre per lui adottata, vale a dire l’inumazione, a costituire il secondo dato di grande interesse. Se nulla al momento si può asserire con certezza sulla mummificazione del cadavere quale conseguenza di un intenzionale trattamento o meno d’imbalsamazione come subito rilevato da Alapont, c’è invece da spiegare l’inumazione a fronte della più diffusa pratica dell’incinerazione. È vero che la prima è progressivamente attestata nel volgere dell’epoca imperiale ma restava in ogni caso, soprattutto agli inizi, una pratica funeraria indubbiamente minoritaria.
Essa sarebbe forse, ancora una volta, da ricondursi allo status sociale di Marcus Venerius Secundio e dunque, come fa notare Arcari, a un aspetto «marcatamente distintivo della pratica dell’inumazione. Si potrebbe anche pensare a legami del defunto con particolari credenze o con culti “orientali” di carattere misterico. Le stesse tracce pittoriche sulla facciata del recinto sepolcrale, piante verdi su sfondo blu, potrebbero forse leggersi alla luce del lussureggiante immaginario escatologico del mondo greco-romano».
Pitture da giardino rievocanti i Campi Elisi ipotizza invece Pesando, che ribadisce come resti comunque necessaria un’analisi approfondita delle reliquie pittoriche. Mentre a livello di suggestione, ma non per questo meno interessante, ricorda come quella dell’inumazione fosse la pratica gentilizia della celeberrima e accennata gens Cornelia in riferimento a Silla.
Resta poi un ultimo e non secondario aspetto, di cui parla a Linkiesta Lorenzo Guzzardi, direttore del Parco Archeologico di Leontinoi, che a Pompei operò come archeologo nel 1981: «C’è una prospettiva ulteriore da considerare, forse la principale: la necessità di tutela di una delle più ricche necropoli di Pompei, ubicata in una zona interessata dalla linea della Circumvesuviana. Bisogna dunque sia continuare gli scavi sia garantire la progressiva accessibilità di un’area così straordinariamente ricca al pubblico».